Scrittu su di lei: Carmen Silvestroni, 1939-1997. Vita e opere dell'artista forlivese e docente. Transavanduardia.
Scritti su di lei  
 

“Senza Possibilità di perdono: nel suo studio niente ti faceva stare comodo, tutto ti chiedeva verità".
Sull'opera di Carmen Silvestroni
Articolo di Clery Celeste, Pangea, Giugno 18, 2020

   


La raccolta che segue è contenuta nella pubblicazione “Una fusione per Carmen Silvestroni” - maggio 2002 - dall’Associazione Glauco Fiorini (di cui ringraziamo Eleonora Toledo per la gentile concessione), in occasione della donazione al Comune di Forlì del gruppo scultoreo “La Scacchiera” realizzato in bronzo grazie al contributo di molti privati, ditte ed enti. Sono storie emozionanti, un “raccontare Carmen” parlando di sé, di lei e di quanto Carmen abbia “scolpito” anche dentro ognuno di noi.


 


The collection of heartfelt thoughts that follows was included in the publication "A fusion for Carmen Silvestroni", edited in May 2002 by the Glauco Fiorini Association (for which we thank Eleonora Toledo for the permission to reproduce). It was published in May 2002 to commemorate the donation to the Municipality of Forlì of Carmen's sculptures, which comprise the chessboard, cast in bronze with funding contributed by many individuals, companies and organizations. Below you will find moving stories from friends talking about Carmen, about how Carmen affected lives beyond her own.


  Gabriele Zelli
Mauro Bacciocchi
Rosalba Paiano
 
Dalla sua famiglia
Lorenza Altamore
Silvia Arfelli
Loretta Bagnoli
Benini e Nanni
Neo Bertaccini
Patrizia Boschi
Flavia Bugani
Franca Cicognani
Enzo Dall’Ara
Milvia Del Zozzo
Antonio Giosa
Secondo Giunchedi
Antonella Imolesi Pozzi
Giovanni Matteucci
Luciana Palma
Rosanna Parmeggiani
Daniela Piccari
Carla Poggi
Rosanna Ricci
Miriam Ridolfi
Franca Sabbadini Babbi
Tonina Santi
Milena Sassi
Alfonso e Nicola Vaccari
Marcello Vandi
Guglielmo Vecchietti
Paola Zaccaria
           



Gabriele Zelli:



Una fusione per Carmen Silvestroni
(Introduzione al libro)

Nel corso di questi ultimi due, tre anni ho ripensato spesso all’attività e alla vita di Carmen Silvestroni. Al di là del ricordo, ancora vivissimo, della persona e della sua umanità e quindi al di là di ogni coinvolgimento emozionale, il ripercorrere ragionamenti fatti insieme mi ha spesso condotto a pormi alcune domande.

Per una città, per una collettività, quanto è importante il ruolo della comunità degli artisti? Quanto può incidere sullo sviluppo culturale e sociale il loro impegno, il loro lavoro? Possono essi determinare un senso di appartenenza ad un territorio, valorizzandone i più intimi aspetti?

E’ indubbio che artisti come Carmen, come Glauco Fiorini, al quale è intitolata la nostra Associazione, e come molti altri sono stati e sono in grado di lasciare un segno profondo. Certo, come proprio Carmen sosteneva, per ottenere risultati duraturi, capaci di lasciare una traccia fertile nel cammino dell’arte e della cultura, è indispensabile che le forze più attive della società vengano coinvolte in progetti dei quali curare l’ideazione e la realizzazione.

Ci sono esempi illuminanti a questo proposito.

La stessa Carmen Silvestroni ha svolto un ruolo importante nella vita di una realtà come quella che si è sviluppata a Sadurano sotto la guida di don Dario Ciani. E’ stata la coordinatrice, fra l’altro, di un progetto di “Via Crucis”, all’interno del quale artisti provenienti da esperienze diverse sono stati chiamati ad affrontare un tema difficile e nello stesso tempo affascinante.

Si era poi resa disponibile, per citare un altro esempio, a fornire un insostituibile contributo per organizzare una delle più importanti mostre di scultura (Spazi direttamente proporzionali) promosse a Forlì. In quell’occasione (era il 1991) venti artisti esposero, con grande successo, le loro opere nei cortili di prestigiosi Palazzi (Mangelli, Gaddi, Sangiorgi), all’interno della piazzetta ex Pescheria e della Sala Santa Caterina; per quest’ultima si trattò del “battesimo ufficiale” seguito all’imponente intervento di restauro che la restituì ad un uso pubblico.

Se le fosse stato consentito, avrebbe continuato a proporre idee e percorsi che conducessero, attraverso la valorizzazione delle esperienze artistiche, ad un conseguente arricchimento per l’uomo. In funzione di queste sue profonde convinzioni aveva subito accettato di far parte dell’Associazione e di sostenere il progetto “Una fusione per Glauco Fiorini”, perché ne condivideva gli scopi. Non è riuscita a vedere il risultato finale.

Che l’opera “La Famiglia” sia oggi esposta nel Parco “Franco Agosto”, è anche un po’ merito suo.

Non potevamo dunque non porci l’obiettivo di salvaguardare anche una sua opera e di collocarla nello stesso contesto; sarebbe bello che altri seguissero il nostro esempio, proponendo la fusione e la collocazione di opere di maestri del passato e del presente in quello che potrebbe divenire una galleria a cielo aperto.

Installare “Scacchiera” è un’operazione civile e culturale allo stesso tempo. Questo nuovo obiettivo raggiunto è patrimonio di centinaia di amiche e di amici, di enti e di associazioni. In questa stessa pubblicazione sono riportati i nominativi di chi ha contribuito, di chi si è speso perché questo progetto venisse realizzato. A loro va la mia totale gratitudine, in particolare a Bernardetta e Rosita, con l’impegno di nuovi e prossimi coinvolgimenti in iniziative che sostengano l’arte e che valorizzino le risorse presenti nelle nostre città.

Don Dario Ciani, in occasione di un incontro pubblico organizzato recentemente per festeggiare i vent’anni di attività della Cooperativa S. Giuseppe di Sadurano, nel ricordare Carmen ha sottolineato: “Solo ora incominciamo a capire la sua intima e profonda sensibilità artistica”.

Saremmo lieti se la collocazione di “Scacchiera”, una delle sue opere più importanti, favorisse l’attenzione e la comprensione di un pubblico di cittadini sempre più folto.

Marzo 2002
Gabriele Zelli
Presidente del Consiglio Comunale di Forlì
e dell’Associazione Glauco Fiorini - Onlus


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Mauro Bacciocchi:



Una fusione per Carmen Silvestroni
(Introduzione al libro)

Non ho mai incontrato di persona Carmen Silvestroni. Ho avuto però modo di conoscerla attraverso le parole dei familiari, degli amici e dei tanti estimatori, che custodiscono di lei un ricordo carico di affetto, di stima e di immutato rimpianto.

Di Carmen mi è stata trasmessa l’immagine di persona vigorosa e anticonformista, ma anche di donna dolce e piena di umanità, di insegnante dotata di un innato talento didattico, stimata dai colleghi e amata dagli allievi, di artista poliedrica e versatile.

Di lei, del suo modo di intendere e vivere l’arte, parlano però, e in modo eloquente, anche tutte le sue opere, che denotano duttilità espressiva e curiosità intellettuale, frutto di una ricerca esistenziale mai interrotta, che ha portato la donna a ricercare e vivere esperienze sempre nuove e l’artista a sperimentare materiali sempre diversi.

Ed è una donna estrosa e generosa e un’artista eclettica che l’Associazione “Glauco Fiorini”, con questa pubblicazione, vuole ricordare a quanti l’hanno amata e presentare a coloro che, come me, non hanno avuto il piacere di conoscerla.

Ma non posso non cogliere questa occasione anche per sottolineare l’assiduo e meritorio lavoro che l’Associazione ha svolto in questi ultimi anni a favore dell’incremento del patrimonio di “Sculture all’aperto” della città di Forlì.

Un’attività fortemente apprezzata dall’Amministrazione Provinciale in quanto concretizza un obiettivo che la Provincia di Forlì-Cesena si è posta in questo particolare ambito artistico, censendo questa tipologia di opere ed attivando tutta una serie di azioni volte a valorizzare e a diffonderne la conoscenza.

A questo proposito, i cittadini ricorderanno certamente la mostra realizzata dall’Amministrazione Provinciale nell’ambito della scora edizione di Contemporanea e siamo certi che non è loro sfuggito il fatto che l’opera “Maternità” di Carmen Sivestroni, di proprietà della Provincia, apriva l’esposizione e ne identificava il Catalogo.

Ritengo che ciò dimostri, aldilà delle parole, la considerazione e la stima che l’Ente che rappresento, ed io personalmente, riponiamo nei confronti di questa indimenticata concittadina.
L’Assessore alla Cultura della Provincia di Forlì-Cesena
Prof. Liviana Zanetti
Siamo grati alla famiglia Silvestroni, alla Associazione Glauco Fiorini e a tutti coloro che hanno sostenuto l’iniziativa, per questo dono che viene fatto alla Città la fusione dell’opera la Scacchiera di Carmen Silvestroni. Fin dal 1976, anno in cui la espose per la prima volta a Forlì, Carmen aveva pensato ad una destinazione per così dire “pubblica” dell’opera, che ora trova splendida collocazione all’interno del parco urbano, le cui vibrazione di luce e colore accentuano il tono epico, la tensione e anche il mistero delle sculture che la compongono.

Le nove figure che da una posizione contratta man mano si sollevano sono emblematiche non solo del difficile percorso della donna per conquista della sua identità ma anche di quello di ogni essere umano per l’affermazione della propria dignità e libertà.

Più che mai in questi nostri anni sconvolti sentiamo intenso e vitale l’insegnamento di Carmen, la sua incessante ricerca sulla condizione umana, trasfusi con grande forza emotiva in quest’opera, che ci induce ancora una volta alla riflessione e, forse, alla speranza.

Mauro Bacciocchi
Assessore alla Cultura e Università
Lodovico Buffadini
Assessore ai Lavori Pubblici e Bilancio
Franco Rusticani
Sindaco del Comune di Forlì


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Rosalba Paiano:



Una fusione per Carmen Silvestroni
(Introduzione al libro)

Carmen

A rivederlo oggi tutto insieme, a tre anni di distanza dalla sua scomparsa prematura, il lavoro di Carmen si rivela un percorso ricco di passione, di vitalità, di urgenza formativa, ma anche di sorprese, e di chiavi inattese di lettura.

Un lungo arco temporale, dagli esordi nella metà degli anni sessanta fino al 1997, di costante impegno culturale e civile, di insegnamento generoso, di viaggi a lungo progettati, e di ricerca artistica perseguita con forza, che si articola in tanti temi e materiali diversi: opere di terracotta, gesso, marmo, cartapesta, e ancora disegni, dipinti, collaborazioni per il teatro. Un percorso aperto, frastagliato, che sempre lascia trasparire la generosità, l’attitudine a sperimentare, a far entrare la vita in tutti i suoi aspetti, e il talento multiforme che si misura con la dimensione monumentale o con le piccole opere di terracotta, che lavora la materia preziosa dell’alabastro o mette in scena la finzione della cartapesta. Sempre sorretto dall’idea del fare artistico come sapere artigianale, come possibilità di scoperta, come sfida ad affrontare nuovi materiali e nuove soluzioni, e infine come rispetto delle proprie autentiche tensioni, la tendenza cioè a rendere forma e immagine vivissima tutto quello che le usciva dalle mani.

Ma c’è un altro aspetto che ora viene in luce, quasi un contrappunto intimo, che emerge con più forza negli ultimi anni. L’autoritratto, presente fin dagli inizi, ripetuto in alcuni periodi con scansioni quasi ossessive, assume nel tempo infinite intonazioni, fino alle splendide realizzazioni che precedono la sua scomparsa.
Sono appunti, studi, è un colloqui e un’indagine intima di se stessa. A ben guardare le fattezze del suo volto, le sue mani, il corpo forte e diritto penetrano continuamente nelle opere dedicate alle esposizioni, intrecciandosi con le sue tematiche ricorrenti. Carmen cerca la sua immagine, fissa la sua realtà in divenire, e la sua immagine si insinua nella pittura, nelle figure femminili con le righe, nelle terrecotte, nei gessi, nelle cartapeste. E d’altra parte, sempre di più, in modo profondo, veniva affidando al lavoro la sua identità.
La cifra costante di questa ricerca sfaccettata, disponibile alle diverse sollecitazioni che via via si presentavano, che ritorna spesso su se stessa riprendendo vecchi motivi ripensati, è il coinvolgimento con la vita, le sue tensioni, le utopie, le ossessioni, le inquietudini, nel rifiuto quasi istintivo e poi meditato di un arte concentrata su se stessa.

Di questo coinvolgimento fa parte – ne è segno coerente – la curiosità appassionata per le materie, la pratica di fare entrare nell’opera, senza cercarlo, quello che restava intorno o le capitava fra le mani: un sasso, un legno, un pezzo di eternit o di moquette, la condensa della stufa del suo studio.

Aveva fatto molto presto la scelta della scultura. In una delle rare interviste confessa che da bambina le sarebbe piaciuto studiare musica, la tromba o il violino, ma in una famiglia numerosa come la sua, con nove fratelli, questa propensione pareva un po’ azzardata e così cominciò a lavorare la creta.
Con la sorella Rosita faceva bamboccini di terra e disegnava sui muri dietro casa: “La creta l’avevo sotto i piedi perché mio padre era un agricoltore. Non è un caso che abbia cominciato a modellare e a disegnare sui muri… Se mi davano un muro di quattro o cinque metri, dietro casa, ci disegnavo sopra. Era la mia carta”.
Frequentò la scuola di ceramica di Zauli e Biancini a Faenza, e poi l’Accademia di Belle Arti a Bologna, dove fu allieva di Umberto Mastroianni che rimase a lungo una figura di riferimento importante e che scrisse il testo che accompagnava la sua prima personale a Forlì nel 1966. Dopo un breve insegnamento in Sicilia, diventò docente di Plastica Ornamentale presso l’Accademia di Bologna.

Sono di questo periodo le sculture vigorose di gesso patinato o dipinto in cui forte appare il senso del volume e delle articolazioni spaziali, e del 1970 sono le prime testine di Mimica, una serie di autoritratti in terracotta, cui nel tempo se ne aggiungeranno altre, maschere diverse di Carmen che spuntano dalla terra.
Ma si sente isolata, stenta a trovare la propria identità, insofferente delle convenzioni, schietta fino a sembrare provocatoria, incapace di compromessi.

Alla fine degli anni sessanta il clima artistico è fortemente segnato dal movimento concettuale, tutto incentrato sull’idea e la materializzazione dell’arte: quello che conta nell’opera sono i processi mentali e linguistici che presiedono alla sua realizzazione, mentre l’ingombro fisico è ridotto al minimo, le decisioni vengono prese in anticipo e l’esecuzione è solo qualcosa di meccanico. “L’idea diventa una macchina che crea l’arte” scriveva Sol Lewitt. Anche nell’arte povera, che dedica il suo interesse ai materiali, hanno una grande importanza gli aspetti concettuali e processuali.
Sono anni fortemente punitivi nei confronti della manualità, del saper fare, delle pulsioni rappresentative ed emozionali, con la delega frequente al già fatto, alla fotografia, alla definizione.

Quello che invece appassiona Carmen è la compromissione con i materiali, il sapere artigianale, quello che la appassiona è la vita in tutti i suoi aspetti, mentre le sono assolutamente estranei il rigore asettico, l’atteggiamento analitico e tautologico.
Chiamava scherzosamente gli studenti di quegli anni “figli di Poliremo”, riferendosi alla loro incapacità di guardare se non attraverso l’unico occhi della macchina fotografica e della cinepresa.

Nel 1976 espone alla galleria Mantellini di Forlì la Scacchiera, Un complesso di nove sculture in gesso dipinto. Scriva Andrea Brigliadori nel testo che accompagnava la mostra: “Costruita la propria fisionomia artistica su esiti di forte espressività formale, vigorosi e drammatici, Carmen Silvestroni ha voluto evitare il rischio di congelare ogni tensione all’interno della forma, di consegnarla ad una insostenibile autonomia. Se la si condanna a rigenerarsi da se stessa, la forma impazzisce, delira; e il suo delirio è fuga, reiterazione elusiva. Così Carmen Silvestroni ci propone oggi una serie di opere in cui geometrie e volumi obbediscono a un più misurato coordinamento, in cui l’energia espressiva evita dispersioni e coinvolge organicamente l’intero corpo artistico”.

L’opera affronta un tema difficile per la sua estrema connotazione sociale e politica. Sono nove figure femminili, disposte in sequenza, ognuna su un piedistallo che ricorda quello degli scacchi, che da posizioni contratte – carponi, chinate, piegate – man mano si sollevano. I visi impenetrabili, dalle fisionomie sfumate, le figure sono concentrate su se stesse come un gruppo di animali che raccolgono le forze, oppure in agguato, pronti a saltare.

Il tono volutamente epico – l’indicazione di un’utopia, una strada percorrere – è complicato dall’allusione al gioco, ad un avversario-interlocutore assente. L’enfasi del modello vagamente egizio, al quale le sculture si ispirano è contrastata dal gesso dipinto con una punta di verde e accentua la condizione di sospensione, carica di attesa.

Anche in pittura Carmen tornerà a più riprese sul motivo della figura femminile. Sono apparizioni enigmatiche, hanno il volto nascosto o si proteggono le orecchie come ad impedire di essere disturbate da un rumore esterno, le mani e i piedi molto evidenti, assorte in strane misurazioni o intente a captare un messaggio remoto. Spesso sono avvolte dalle righe di un caffetano, un’allusione alle culture africane di cui subiva il fascino e alle quali si richiameranno più esplicitamente alcune maschere di terracotta e numerosi lavori in cartapesta.

Anni dopo, nella lunga intervista del 1991 che ho citato prima, Carmen racconta con parole semplici e fantasiose l’incontro con il movimento femminista. “Era un momento molto caldo per il discorso femminista. Non è che sia cambiato qualche cosa. Io non sono cambiata, a volte mi sento un UFO, mi sembra di essere una diversa ma non sono così perché nel ’74 – ’75 c’erano questi movimenti femministi. Io avevo scoperto che loro dicevano le cose che pensavo io, magari un po’ più arrabbiate… Essere un UFO vuol dire che io a vent’anni pensavo di fare quello che sto facendo adesso a cinquant’anni. Non ho mai fatto uno sforzo per essere quello che sono. Semmai ho fatto sforzi per apparire dentro la norma. Credo che c’entri molto l’ambiente in cui vivi… Io mi ero inventata un’idea di famiglia guardando un gatto che avevamo in casa: brutto, un po’ rognoso e senza coda, che filava dietro alla nostra gattina che se la faceva con un altro, faceva i gattini e li metteva là e lui voleva così bene a questa gatta che quando lei andava a mangiare badava i piccoli anche se non erano i suoi figli. Io a dieci anni su questo avevo fatto una teoria: non mi sposerò mai, farò un figlio, voglio che i miei amici possano essere il padre di mio figlio”.

Non ha mai avuto un figlio Carmen, e credo che abbia patito molto la mancata maternità, ma aveva molti amici. Nel 1976 a Forlì era già per tutti “la Carmen”, come titolò affettuosamente un suo articolo Giuliano Missirini: tutti la conoscevano, non solo per la sua attività artistica ma per i suoi modi diretti e anticonformisti, per un che di leggendario che la sua figura si portava dietro – i trascorsi da paracadutista o la pecora custodita nello studio – e tanti la amavano per quel misto di generosità, vitalità e ironia che ne facevano una persona del tutto singolare.

Il suo studio in via Pellegrino Laziosi, affacciato su un grande cortile, tra vecchie case e orti sopravvissuti, era un infilata di piccole stanze stipate di libri, gessi, terrecotte, resine, ferri, e di strani strumenti musicali riportati dai viaggi in Africa e in oriente. E musica continuamente, ad alto volume.

Sembrava un miracolo vederla cavar fuori dagli scaffali traboccanti un fragile bucchero o estrarre da un angolo un teatro di terracotta.

C’era sempre qualcuno seduto sulle vecchie poltrone: amici, allievi vecchi e nuovi, artisti. E spesso una persona si affacciava a ricordare un impegno o a fissare un appuntamento. Carmen era sempre lì e quando non c’era, la chiave fuori della porta era un invito ad entrare. Lavorava con passione, animata da una forza dura e caparbia: “Vivo questo rapporto con il fare in maniera particolare. Se dovessi smettere di lavorare mi sparerei. L’altro giorno avevo un dito gonfio, sono andata al pronto soccorso: la paura che mi vengano a mancare le mani…”.

Certo rispetto alla figura dell’intellettuale che dispensa dall’alto il suo magistero, Carmen era diversa: sempre disponibile ad ascoltare, a discutere, ad esporsi, grandi o piccole che fossero le cause con un sapere positivo e spregiudicato della vita che le veniva dalla famiglia numerosa e dalla disciplina del lavoro e con una moralità antica, lontana da interessi personali.

Non ha mai mosso un dito per una mostra, per la carriera, non è mai stata sfiorata da preoccupazioni di mercato. Ma credo che abbia molto sofferto il suo isolamento, la mancanza di interlocutori specifici: anche la figura di Mastroianni, con la sua piena “modernità”, nel tempo si farà più lontana. E forse quel suo prodigarsi in tante direzioni era anche un disperato bisogno di occasioni di confronto, di conferme.

Negli anni successivi al 1980, Carmen moltiplica la sua attività, anche per reazione alla morte del compagno al quale era stata legata da un lungo rapporto tormentato; continua a lavorare la creta, scopre la cartapesta, riprende l’alabastro, creando una sottile, preziosa figura di Adolescente, disegna e dipinge.

Ma nella terracotta, che era stato il suo primo linguaggio, il suo talento si va affinando fino a diventare una seconda natura che le consente un repertorio multiforme: superfici dalla trama sensibilissima, volti di una classicità deformata, ormai irraggiungibile, e tra questi i tanti volti di Carmen, maschere tragiche, associazioni mostruose, crudeli.

La dimensione sofferta dell’inautentico, di un modo di essere fittizio e convenzionale, l’oscenità dell’uomo comune che si spingono fino alla perdita di senso, alla follia dei gesti quotidiani, diventano immagini folgoranti.

Ritorna spesso il motivo del doppio, dell’uomo diviso e cucito in modo cruento, dell’impossibilità ad esprimersi, con l’immagine del gomitolo che soffoca la bocca, dell’impotenza a guardare e a sentire, con la corda che è una bava che scende a ostruire la cavità degli occhi, del naso, della bocca. C’è un delizioso cherubino che sembra un putto trecentesco, con le alucce che lo strangolano come un collare di costrizione e lo chiudono violentemente dentro una specie di seggio. Ci sono i ritratti dei tanti nipoti bambini, realistici nella loro perfetta riconoscibilità. Barthes in un saggio famoso dice che la fotografia è folle perché ratifica ciò che inevitabilmente non è più. Qui lo spaesamento deriva dal meccanismo opposto: i volti infantili sono proiettati in avanti nel tempo ed è la materia stessa, la luce della sua corporeità ad anticiparne il destino.

In queste opere si rivela tutto l’anticoncettualismo di Carmen, l’insofferenza per l’attenzione esasperata nei confronti del linguaggio e delle possibilità dell’arte, per l’osolescenza delle tradizioni, non ultima quella artigianale. Ad esse oppone, come una sorte di potente esorcismo, la forza bruciante della materia, della vita, della forma in cui prende corpo l’evidenza del gesto. Ed ecco, contro le palingenesi astratte o da laboratorio, l’apparizione dei Linguacciuti o dell’uomo che si scolpisce la sessualità; ecco la visione allucinata da una miriade di corpi che si arrampicano uno sulle spalle dell’altro in una ascesa insensata, schiacciati quelli di sotto perché l’ultimo arrivi alla sommità di uno specchio.

Ma il tema del doppio, della finzione, non può essere letto come alternativa tra autentico e fittizio, tra verità e menzogna, ma nell’ambito di una realtà che è diventata più complessa in cui i confini si sono fatti sfumati, labili, e la verità non è più illuminazione piena e costante. Sempre di più ora mi pare che la tentazione di leggere le opere di Carmen nel senso univoco della denuncia delle colpe, delle perversioni di un’epoca, benché suggerito dalla vivezza delle immagini, dalla loro forte connotazione, sia fuorviante: perché anche da esse traspare continuamente la consapevolezza che più di ogni altra forse appartiene al nostro tempo, che ci viene da Freud, dal pensiero filosofico del ‘900, da Foucault, la consapevolezza cioè che l’individuo oltre che agire è agito, oltre che parlare è parlato dal linguaggio, che l’ambito in cui si muove e compie le sue scelte è limitato dalle strutture storiche, linguistiche, culturali.

In questo ambito assumono significato gli allestimenti con la cartapesta.

Carmen aveva cominciato a sperimentarla con soddisfazione nel 1983 perché le sue caratteristiche di materiale leggero, povero, maneggevole, non fragile come la terracotta, ben si prestavano al senso della messa in scena che ispirava questi lavori: essi proiettano infatti le ossessioni, le fantasie in una dimensione dell’immaginario o del passato, caricandoli della forza e dell’urgenza del presente e insieme si portano dentro l’avvertenza che si tratta di un finzione, in cui prendono però corpo emotività profonde.

Le opere presentate al Premio Campigna del 1985, che portano titoli suggestivi come Idoli, Labirinto, sembrano scavare in profondità in una remota archeologia dell’inconscio e dell’immaginario e ricostruiscono un’atmosfera tribale in cui ci si muove tra idoli, labirinti e vertebre sbiancate dal tempo.

Scrive Adriano Baccilieri nella presentazione: “I suoi idoli totemici, strutture arcane, misteriosi come la patina plumbea e organica che li avvolge, fra manufatto e resto animale, alludono alla magia di riti tribali celebrati da civiltà di cui si è persa la memoria, ma di cui restano intatti fascino e potenza. L’arcaismo “africano” della Silvestroni non li propone infatti come reperti ma sembra ricrearne per intero, al presente, la feroce natura, simbologia e destinazione d’uso”.

In Adamo ed Eva, Carmen si diverte a reinventare, con toni foschi e accesi, la prima storia dell’uomo e della donna, quella che vuole che sia stata Eva a indurre Adamo al peccato. Un grande serpente si snoda sinuoso ad osservare il fatto compiuto, il frutto della sua tentazione: un enorme faccione doppio in cui l’unica bocca è otturata da una mela rossa. Forse all’inizio i ruoli non erano così precisi, la primogenitura del male non spetta ad Eva, forse insieme hanno gustato il frutto proibito. Benjamin dice che la storia è scritta dai vincitori che tramandano solo ciò che consolida il loro potere: su questa prima storia si sono costruite un numero infinito di vicende a venire.

Ne Il pastore buono, una faccia larga e ben pasciuta, le mani gesticolanti e il corpo di sabbia, ammonisce un gregge di pecore in fila, tutti uguali, remissive: è il pericolo dell’omologazione, della passività, di fronte ai diversi messaggi persuasivi che portano alle visioni stereotipate del mondo.
Un’altra rappresentazione, un altro gioco di ruoli è quello dei Sassi incantati. Nel 1988 presenta a Bologna, alla galleria Biloba, un grande allestimento formato interamente da opere di cartapesta: sassi sorretti da esili fili di ferro e due grandi figure che ricordano una storpiata iconografia medioevale. Basta una leggera sollecitazione o un soffio d’aria a far muovere i sassi che descrivono così nello spazio traiettorie imprevedibili e la loro pesante realtà è subito smascherata. La disinvolta allegria dei sassi, la naturalità dei loro movimenti impertinenti, curiosi del mondo, contrasta con la fissità delle due grandi figure, il guardiano tutto chiuso in una corazza che gli stringe il corpo, e l’angiolone che in una protensione contratta sorveglia dall’alto. C’è anche una allusione alla presenza inquietante delle macchine, un vecchio motore di frigorifero, assemblato con una gomma di bicicletta, che solleva la testa del guardiano in un movimento a singhiozzo coatto e ripetitivo.
Ancora una volta le cose non sono quello che sembrano, realtà e finzione si mescolano, l’uomo è chiuso dentro se stesso e i sui riti, incapace di vedere, di sentire.

Una figura femminile dipinta su eternit, in cui è sufficientemente riconoscibile Carmen, sembra toccare con le mani il mondo. Il fondo ondulato rende imprendibile la visione che si deforma continuamente a seconda del minimo spostamento dell’osservatore, come ad indicare una molteplicità di punti di vista, un numero infinito di realtà.

Non aveva mai abbandonato la pittura. Nel 1984 esegue un gran numero di autoritratti a carboncino nei quali registra impietosamente la sua immagine con tratti duri, inflessibili, qualche volta nascondendosi dietro una maschera, o con i lineamenti deformati e fissi, mentre soltanto gli occhi doloranti sembrano vivi. I dipinti con il trapano sono del periodo successivo alla scomparsa del fratello nel deserto del Sahara: di lui non si saprà più nulla, tutte le ricerche sono state inutili. Per Carmen era un pensiero costante che non riusciva ad allontanare dalla mente, un chiodo che le trapanava il cervello.

Negli ultimi tempi l’attaccamento al lavoro diventa più duro ma anche più intimo, come se le due diverse destinazioni, per se stessa e per le esposizioni, diventassero una sola, come se al lavoro fosse affidata interamente la sua identità: “Non faccio mai nessun progetto perché ogni giorno io sono qui, anche la domenica, se non ci sono è perché è successo qualcosa improvvisamente. Non mi piace fare progetti, il mio progetto è stare qui”. Il tema della costrizione, che attraversa tutta la sua opera, viene ripreso adesso in modo più sottile. La violenza non è più apparizione bruciante della materia, ma è trattenuta nei suoi contorni nitidi, precisi, come in garrota dove il bucchero come una tenaglia delle punte rossastre, minacciose, stinge schiacciandolo un sasso di cartapesta; come nel sasso, vero questa volta, che ha imprigionato nelle sue viscere un delicato cucchiaio contorto che sembra uscito da una tomba etrusca.

Anche la cartapesta viene usata in modo diverso, senza pittura, senza il gioco della sua finzione; contrastando la sua natura sorda, amorfa, Carmen ne fa una materia sensibile, vibrante di luci sottili. Le superfici bidimensionali presentate nel 1995 alla Sala Forum di Faenza portano inclusioni di tessere che ricordano un mosaico o un selciato romano, fili di ferro con il colore discreto lasciato dalla ruggine, borchie, o un autoritratto appena accennato in una velatura circolare come una bolla di sapone: sono paesaggi della memoria, cifre segrete, nostalgie ironiche, come se per la prima volta si facesse sentire la percezione del tempo che passa.
Le sculture diventano suggestivi strumenti musicali di una qualche civiltà perduta, ma l’accento è molto cambiato rispetto a quelle del Premio Campigna. Sono leggere con un ritmo circolare che le percorre, sembrano captare o custodire i suoni.

Del 1995 sono i tre autoritratti su moquette con il colore liquido, pieno, che ha impregnato le più intime fibre della materia, trasformandola in morbido velluto. Carmen con la sigaretta, con la testa circondata da serpenti come una Medusa, con una corona di pampini e frutti come Proserpina.

L’ultima volta che ho visto Carmen, per nascondere la commozione mi ero girata con il pretesto di osservare un quadro appeso alla parete della stanza. Era la Medusa, uno degli splendi autoritratti, nati nella sofferenza, che la restituiscono nella sua intensa integrità. E Carmen, che aveva seguito tutto, per assecondare quel mio povero teatrino e togliere di mezzo emotività eccessive che ci avrebbero impedito di parlare un poco serenamente, cominciò a spiegarmi il procedimento laborioso che richiedeva la pittura sulla moquette: la superficie porosa assorbiva molto olio e impiegava molto tempo ad asciugare, bisognava aspettare a lungo prima di ripassare una seconda volta e poi una terza. C’era musica, come sempre, un’incisione del Flauto Magico che le avevo portato da Bologna. Carmen si interruppe un momento per seguire un passaggio, poi disse con un mezzo sorriso: “Non è fantastico Mozart?” La musica l’aveva accompagnata per tutta la vita.

Rosalba Paiano



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Dalla sua famiglia:



Da: Il Piccolo Principe di Antoine De Saint-Exupéry, edizione Bompiani, 2001

E’ triste ricordare

“[…] Ho serie ragioni per credere che il pianeta da dove veniva il piccolo principe è l’asteroide B 612. Questo asteroide è stato visto una sola volta al telescopio da un astronomo turco. Aveva fatto allora una grande dimostrazione della sua scoperta a un Congresso Internazionale d’Astronomia. Ma in costume com’era, nessuno lo aveva preso sul serio. I grandi sono fatti così.

Fortunatamente per la reputazione dell’asteroide B 612 un dittatore turco impose al suo popolo, sotto pena di morte, di vestire all’europea. L’astronomo rifece la sua dimostrazione nel 1920, con un abito molto elegante. E questa volta tutto il mondo fu con lui.

Se vi ho raccontato tanti particolari sull’asteroide B 612 e se vi ho rivelato il suo numero, è proprio per i grandi che amano le cifre. Quando voi gli parlate di un nuovo amico, mai si interessano alle cose essenziali. Non si domandano mai: “Qual è il tono della sua voce? Quali sono i suoi giochi preferiti? Fa collezione di farfalle?”

Ma vi domandano: “Che età ha? Quanti fratelli? Quanto pesa? Quanto guadagna suo padre?”

Allora soltanto credono di conoscerlo. Se voi dite ai grandi: “Ho visto una bella casa in mattoni rosa, con dei gerani alle finestre, e dei colombi sul tetto”, loro non arrivano a immaginarsela. Bisogna dire: “Ho visto una casa di centomila lire”, e allora esclamano: “Com’è bella”.

Così se voi gli dite: “La prova che il piccolo principe è esistito, sta nel fatto che era bellissimo, che rideva e che voleva una pecora. Quando uno vuole una pecora è la prova che esiste”.

Be’, loro alzeranno le spalle, e vi tratteranno come un bambino. Ma se voi invece gli dite: “Il pianeta da dove veniva è l’asteroide B 612” allora ne sono subito convinti e vi lasciano in pace con le domande. Sono fatti così. Non c’è da prendersela. I bambini devono essere indulgenti coi grandi.

Ma certo, noi che comprendiamo la vita, noi ce ne infischiamo dei numeri! Mi sarebbe piaciuto cominciare questo racconto come una storia di fate. Mi sarebbe piaciuto dire:
“C’era una volta un piccolo principe che viveva su di un pianeta poco più grande di lui e aveva bisogno di un amico…”
Per coloro che comprendono la vita, sarebbe stato molto più vero. Perché non mi piace che si legga il mio libro alla leggera. E’ un grande dispiacere per me confidare questi ricordi. Sono già sei anni che il mio amico se ne è andato con la sua pecora e io cerco di descriverlo per non dimenticarlo. E’ triste dimenticare un amico.”

 

Carmen era la terza di nove fratelli,
apparteneva al gruppo dei “grandi”,
quelli che dovevano dare il buon esempio.

Era l’ideatrice dei giochi,
richiamo per tutti i bambini del lontano vicinato.

Era socievole e rideva volentieri
e voleva che anche gli altri imparassero a ridere.

Era spesso vestita con un barracano di lana
e pelo di cammello.

Carmen aveva una pecora.

La tua famiglia



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Lorenza Altamore:



Frammenti

Ho conosciuto Carmen diversi anni fa. Amici e luoghi comuni ci hanno avvicinato.

Aveva insegnato all’Istituto d’Arte di Grammichele, una cittadina dell’entroterra siciliano, che aveva dato i natali a mio padre ed era il luogo di residenza della mia famiglia.

Ammiravo Carmen! Vedevo in lei non solo l’artista capace di sperimentare ogni lessico, maestra nel trasmettere con le sue opere forti emozioni: ella era anche una donna vera, schietta nel suo modo di essere, libera nel suo pensiero, caparbia nella sua lotta, determinata nei suoi principi.
Carmen era una “forza”. Ma l’incontro vero con Carmen è avvenuto il 13 maggio del 2000, in occasione della mostra organizzata, dopo la sua scomparsa, a Forlì e a Bologna.

E’ stato allora che la sua essenza ha dialogato con la mia, in un colloquio intimo, forte, vivo, eppur doloroso.

Le sue opere, riunite insieme, creavano in me un forte pathos, trasmettevano alla mia anima la sua sofferenza nascosta, il suo disagio, il suo urlo al mondo.

Ora conoscevo un’altra Carmen, conoscevo il suo dolore. Così, presa una penna, scrissi alcuni piccoli brani di lettura delle sue opere.
Ecco da dove nascono questi piccoli frammenti.

Lorenza Altamore



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Silvia Arfelli:



La fusione in bronzo dell’opera “La scacchiera” di Carmen Silvestroni

“La Scacchiera” è l’opera che, nel lontano 1987, complice una rassegna d’arte al femminile organizzata dalla Circoscrizione n. 4, segnò il mio incontro con Carmen Silvestroni; oggi, paradossalmente, quella stessa opera sancisce non un addio, ma piuttosto una sorta di ritorno di Carmen nella nostra città, considerato che “La Scacchiera”, installata al Parco Urbano, rappresenterà il lascito più tangibile, quello che tutti, durante una passeggiata, potranno ammirare nel cuore verde della città. Per Carmen, “La Scacchiera” è stata, da subito, un’opera impegnativa, considerato che è composta da ben nove sculture; ricordo che quando ne portò alcune, a quella mostra in Circoscrizione, parlammo a lungo proprio del materiale, della sua fragilità, della paura che le opere potessero danneggiarsi e, al tempo stesso, di quanto fosse arduo, per lei, sia tecnicamente che economicamente, poter concepire l’opera in materiali diversi dal gesso, più pregiati e durevoli. Questo gruppo scultoreo ha sempre avuto un grande significato per Carmen: ironica e riservata, provocatoria e intelligente, passionale e irruente, ma vittima, a volte, di insospettate crisi di timidezza, questa artista ha attraversato la vita con passo deciso, schernendosi delle proprie debolezze, forte delle proprie fragilità, proprio come quest’opera monumentale che rappresenta, attraverso nove stazioni diverse, il lento erigersi verso l’alto della stessa figura femminile, la conquista di una posizione eretta che può essere letta in mille modi; dalle varie stagioni della vita, ad una rivendicazione di libertà e di indipendenza, ad una semplice ribellione alla paura, l’estensione verso l’alto di questa figura rappresenta un percorso in qualche modo autobiografico di Carmen, così come di altre donne. Quest’opera, datata 1976, si integra perfettamente, dal punto di vista formale, nelle battaglie sociali e civili del tempo, che videro protagonisti i movimenti femminili impegnati a rivendicare pari diritti e dignità. Carmen si inserì a suo modo in questo contesto: la sua sfida al mondo era tutta in quella scelta di vita anticonformista e alternativa, fuori dagli schemi convenzionali e dai ruoli prestabiliti. La donna e l’artista rappresentavano un tutt’uno con le caratteristiche più spiccate della sua personalità: i moti d’orgoglio, certe fughe da se stessa, ma anche l’umiltà e la grande generosità con la quale accoglieva tutti; le porte del suo studio erano aperte agli amici di sempre, agli altri artisti, ai suoi allievi dell’Accademia. Penso che fra noi, a Forlì, non sia stata pienamente recepita l’importanza che rivestiva, per Carmen, la sua cattedra di Plastica Ornamentale a Bologna; non era una di quelle docenti che considerava l’insegnamento un modo di sbarcare il lunario, ma credeva invece nel suo ruolo, credeva nelle giovani generazioni e in quello che avrebbe potuto trasmettergli. Fra l’altro, l’Accademia rientrava a pieno titolo fra i luoghi delle sue sperimentazioni, i luoghi della sua ricerca estetica; anche quando l’ambiente la deludeva e, come a tutti ogni tanto accade, non ricambiava i suoi slanci con uguale fiducia. Fiducia, credo sia la parola che più di ogni altra può riassumere un ricordo di Carmen: la sua fiducia negli altri, nonostante le ferite; la sua fiducia nell’arte, nonostante le incomprensioni con i circuiti ufficiali; la sua fiducia nel materiale, nelle possibilità delle resine, in un pezzo di ferro arrugginito, in un legno abbandonato e corroso dal tempo che si trasformava, nelle sue mani, ed aspirava a divenire autentica forma d’arte. Ma soprattutto, la fiducia in se stessa, nella fatica del suo lavoro, nelle mani sporche di creta, nel vivere l’arte senza confini fra progettualità e manualità, nell’intendere la tecnica come sana capacità artigianale, nella possibilità di proiettare una parte di sé nel suo lavoro, anche in quelle nove figure di donna ora soccombenti, ora reclinate, ora sempre più alte e libere verso la vita.

L’installazione di quest’opera monumentale al Parco Urbano rappresenta l’ultimo insegnamento di Carmen: insegnerà ancora a tutti noi, ai ragazzi che passeranno di lì tenendosi per mano, alle famiglie che andranno a vedere da vicino quelle figure in bronzo che brillano in lontananza, ai bambini che giocheranno a cavalluccio con le sculture accovacciate, e agli anziani che, avendo avuto la fortuna di poter seguire il loro orologio coi tempi della vita, faranno una riflessione su quelle nove immagini in sequenza e magari, in un lento ritorno verso l’infinito, leggeranno il percorso al contrario.

Silvia Arfelli



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Loretta Bagnoli:



Ha preferito così

Varia e complessa era la personalità di Carmen, sia sotto l’aspetto umano, sia sotto l’aspetto creativo, per cui riassumerla in due cartelle è compito arduo e per me impossibile.

Una cosa però non posso non dire: l’ONESTA’ e il rigore che aveva non solo verso gli altri ma anche verso se stessa, il che faceva di lei la Carmen che io ho conosciuto, ammirato e stimato.

Per questo con orgoglio mi sento di dire: “Era mia AMICA, ero suo amico!”.
Bruno Assirelli
Ha preferito così

Basterebbe dire di Carmen che ha sempre lavorato per se stessa, con la forza dell’autenticità, per far capire il suo valore. Qualità unica oggi, che quasi tutti lavorano, come lei diceva, “da ragionieri della pittura o della scultura”, per galleristi che commissionano formati e colori di quadri da fare in serie, a pacchi e gestiscono gli “artisti” come prodotti - saponetta. Carmen diceva: “Il mio pregio e il mio difetto è l’eclettismo”, lo sapeva, ma lo attuava, pur di esprimersi con verità e con la forma che sentiva in quel momento.

Carmen non si è venduta, ha pagato duramente con l’emarginazione questa scelta, ha visto i molti che frequentavano il suo studio disposti ai compromessi e votati alla non qualità.

Ha visto e ha stretto i denti, ha sofferto e taciuto. Ha preferito così.

Loretta Bagnoli



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Ombretta Benini e Gianni Nanni:



Compagni di scuola

Eravamo un gruppetto di quattro nella scuola di Faenza: Carmen, Gianni, Ombretta e Donatella.

Carmen e Gianni facevano i pendolari da Forlì, Ombretta abitava in città.

Donatella, figlia del grande scultore - ceramista Angelo Biancini, veniva da Castel Bolognese ma a Faenza era di casa.

Tre anni di scuola insieme, legati dagli stessi interessi per l’arte, navigavamo attraverso progetti che avevano numerosi percorsi in comune.

Carmen era il nostro punto di riferimento: si proponeva con sicurezza nell’atteggiamento e nel linguaggio, accattivante e persuasiva, critica e trasgressiva, certamente creativa ed innovativa.

Mostrava una forte ansia di giustizia, una propensione all’accoglienza nei confronti di tutti, ma soprattutto dei diversi.

Il rifiuto del razzismo era già presente in Carmen fin dall’adolescenza e si manifestava nei suoi interventi a scuola sia sul piano verbale, sia nei suoi lavori di disegno e modellato.

Terminato il ciclo scolastico faentino, le nostre strade si sono divise pur rimanendo ognuno di noi nel mondo dell’arte e della scuola.
La nostra amicizia è rimasta e ogni volta che qualcuno chiama, per qualsiasi cosa, l’altro risponde per poi ritornare nell’ombra.

Ombretta Benini e Gianni Nanni



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Neo Bertaccini:



A Carmen

I Silvestroni sono una famiglia numerosa, Carmen era la terza di nove fratelli.

Ne ho conosciuti alcuni che frequentavano più o meno assiduamente la parrocchia di San Pio X di Ca’Ossi, ai tempi di Don Giovanni Cani: Francesco buon ciclista, Gigi che per la bionda barba recitava la parte di Gesù nelle funzioni Pasquali, poi misteriosamente scomparso, la Rosita e la Carmen.

La Carmen si vedeva di rado e già allora era accompagnata dalla “fama” di artista, di intellettuale spigolosa e critica, di anticonformista.

L’ho poi rincontrata negli anni ‘70 quando un po’ per dovere (ero allora Assessore alla cultura del Comune di Forlì) ma molto più per curiosità iniziai saltuariamente a visitare il suo studio in via Pellegrino Laziosi.

Col tempo diventammo amici e presi l’abitudine di tanto in tanto di passare a trovarla.

E’ così che ho imparato a conoscerla non solo come artista ma anche come persona, attraverso le piacevoli chiacchierate che si svolgevano sugli argomenti di comune interesse, sempre con sottofondo musicale e in inverno combattendo i generosi spifferi dei vecchi infissi col caldo di una piccola stufetta.

Carmen era un testimone attento e acuto degli avvenimenti del “mondo” non solo artistico.

Donna colta dai molteplici interessi, tenace nel sostenere le sue idee, pur nel rispetto di quelle degli altri, sferzante nei giudizi, ma sempre disposta a mettersi in discussione.

Credo cercasse di proteggere le proprie “fragilità” con atteggiamenti apparentemente aggressivi certamente originali.

Anche il tenere per diversi anni una pecora nei locali accanto al suo studio penso vada interpretato in tal senso più che attribuirlo all’eccentricità di un artista, era forse anche il bisogno di dare e ricevere affetto.

Nel suo studio ho incontrato persone le più disparate, da giovani artisti in cerca di consigli e di incoraggiamento, da artisti che assieme a Carmen lavoravano su comuni progetti, ad amici che semplicemente passavano per un saluto.

Avevamo tra i tanti amici in comune alcuni ai quali entrambi eravamo particolarmente legati per stima e per affetto: Miria Malandri, artista raffinata, donna di grande sensibilità in cerca sempre di certezze che forse in una certa misura trovava nella forte personalità di Carmen; Giuliano Missirini, indubbiamente uno degli uomini più colti e sensibili che Forlì abbia avuto ultimamente.

Nei loro ragionamenti e nelle loro battute tutta l’ironia, il disincanto e la dolcezza tipica dei saggi.

Ancora lì, nel suo studio, ho conosciuto il Cav. Fabio Avoni al quale Carmen era particolarmente affezionata, un poeta dalla squisita sensibilità, un uomo fuori dal tempo, riservato e di una timidezza che invano cercava di nascondere con una straordinaria ricercatezza nel vestire che lo faceva sembrare appena uscito da una stampa dell’ ‘800.

Li ho incontrato Alves Missiroli, un giovane artista di talento che Carmen apprezzava molto.
In quello studio ho portato qualche volta i miei allievi dell’Istituto d’Arte, approfittando sia della vicinanza sia della disponibilità di Carmen.
Coi ragazzi Carmen mostrava tutta la sua capacità di trasmettere l’Amore per l’Arte, il suo fascino di insegnante riusciva ad entusiasmarli.
Nelle frequentazioni mi parlava dei suoi “lavori”, me li mostrava.

Illustrava, a me profano, nuove tecniche e nuovi materiali che amava sperimentare in un continuo lavoro di ricerca.
A lei chiedevo l’opinione su iniziative culturali cittadine, opinioni sempre molto puntuali e motivate, e chiedevo suggerimenti, proposte che si rivelavano generalmente utili spesso preziose.

Mi parlava a volte dei suoi progetti.

Negli ultimi anni aveva programmato il trasferimento dello studio in una casetta che aveva comprato fuori città, un sogno che purtroppo non ha potuto realizzare.

Poi la malattia, la sua dignitosa e coraggiosa lotta contro il male.

Ha lavorato fino all’ultimo.

La ricordo in uno degli ultimi incontri nel suo studio mentre stava modellando un pannello per il primo sinodo diocesano di Forlì – Bertinoro.
Carmen ha rappresentato per me anche uno straordinario esempio di amore filiale: era affascinata e innamorata dell’anziana madre con la quale viveva e i cui lineamenti ha spesso riprodotto nei tanti ritratti e leggibili anche negli autoritratti.

Carmen ha lasciato un segno visibile nella città con le sue opere; ogni domenica, ad esempio, il mio pensiero corre a lei quando gli occhi si fermano sulla sua “via crucis” nella chiesa Regina Pacis.

Ma il segno forse maggiore è quello che non si vede e che ha lasciato nel cuore di chi ha avuto il privilegio di conoscerla, per la sua forza d’animo, per il suo coraggio, per la sua generosità e per la sua autenticità.

Neo Bertaccini


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Patrizia Boschi:



Messa da Requiem

Amante della Conoscenza, sperimentava di continuo nuovi percorsi per esplorare le profondità della sua interiorità e trovare le radici del proprio essere. Intelligente e sensibile, sapeva essere disponibile verso tutti. Grazie alla mente aperta ed alla sua sensibilità riusciva a dare molto a chiunque veniva a bussare al suo studio, per i più svariati motivi. Colma di cultura e di intelligenza, le discussioni ed i dialoghi spaziavano dall’arte alla musica, ed altri vasti campi. Le conversazione non erano mai vuote, stereotipate o ripetitive, ma da ogni incontro scaturivano riflessioni utili, consigli, idee nuove. Era stimolante, e soprattutto mi faceva sentire a casa mia, quando andavo a trovarla. Mi piaceva aiutarla in quello che stava facendo e in qualche modo contraccambiarla per quello che ogni volta mi sapeva dare, anche quando talora era brusca ed impetuosa. Ricordo con infinita dolcezza la sua estrema umiltà e la sua leale sincerità al di fuori delle ipocrisie e del finto perbenismo. Non so se sono riuscita a ridarle anche solo un briciolo di quell’amore amichevole che ha sempre avuto verso di me. Penso che non troverò mai più un affetto così sincero, puro, disinteressato con cui condividere il mio mondo e le mie passioni. Semplice e proprio perché così grande come persona non è stata mai capita pienamente ed amata in vita. Ricordo un giorno, per me molto triste nel quale avevo avuto la notizia che mia mamma era senza speranza, malata grave di tumore, all’epoca ero allieva di Carmen all’Accademia di Belle Arti. Andai nello studio con la disperazione nel cuore, Carmen mi ascoltò in silenzio, non disse nulla, mi fece sedere sul divano e pronunciò: “Ascolta!” Mise un disco, La messa da Requiem, di Verdi, ad alto volume. Lei si sedette vicino a me ed ascoltammo in religioso silenzio quella musica divina. Quel giorno imparai a conoscere il grande Verdi, quel dolore e quella disperazione per la mia vicenda personale era mutata in dolore del mondo, subentrò l’amore per la musica classica. Di questo ed altro era capace Carmen. Grazie mia cara amica.

Patrizia Boschi


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Flavia Bugani:



Carmen Silvestroni: l’uomo e il sentimento del sacro

Di Carmen le peculiarità che emergono immediate sia nel ricordo dei tanti amici, sia nelle valutazioni dei critici, sono il costante impegno artistico e civile, l’inesausta curiosità intellettuale e creativa e la conseguente attitudine a perseguire, con testarda energia, vari itinerari di ricerca, misurandosi con temi e materiali diversi, questi ultimi “manipolati” e resi espressivi con una radicata tendenza alla sperimentazione e con una perizia, che è coscienza del valore della manualità ed orgoglio di un “saper fare”, che direttamente discende dalla grande tradizione artigianale.

Tali attitudini, a cui fanno riscontro dati caratteriali quali la forte personalità la generosità l’intensa umanità, il coinvolgente entusiasmo, la disponibilità nei confronti degli altri e, insieme, la determinazione nel perseguire le proprie scelte, tali attitudini, si diceva, trovano fertile terreno, rappresentativo ed emozionale, nelle opere a tematica sacra, “filone” che Carmen ha percorso ed articolato dalle due Via Crucis realizzate per la chiesta forlivese “Regina Pacis”, una in terracotta del 1969-’70, l’altra in vetroresina del periodo 1970-’74, alla XIII stazione della Via Crucis di Sadurano, ai numerosi Crocefissi risalenti a momenti diversi della sua attività, alle Madonne in cartapesta, concepite dal 1983 in poi, a quelle a bassorilievo in terracotta, dal 1986 in avanti, ispirate ad immagini sacre venerate nel territorio, sino ai tanti disegni e studi.

Stilisticamente, si va dalle vibrazioni sottili e sensibili delle superfici ai volumi emergenti, potentemente articolati negli spazi, con esiti di tangibile vigore formale e di drammatica espressività, in cui il naturalismo di fondo è reinterpretato con un sentire fortemente espressionista e con una sintesi formale, spesso memore di un cubismo “estremo”.

Se questo è il visibile, del pari si intuisce appieno la forza interiore che è alla base delle figurazioni, la partecipazione alla dolcezza della maternità, alle sofferenze del Cristo, al dolore di Maria, entrambi identificati con l’uomo, i suoi drammi, le sue problematiche, in una continua tensione, che anche ricerca di sé‚ e scavo nella propria interiorità.

Inscindibile, del pari, è un’incrollabile fiducia nell’uomo stesso, nella sua imperfezione che si fa aspirazione al positivo e all’ideale, fiducia che ben si identifica nel progetto ricordato Don Dario Ciani: “Alla fine di quest’opera [la Via Crucis di Sadurano], Carmen sognava di fare l’ultima stazione, la XV, sul monte di Sadurano con un’immagine di resurrezione. Lo studio che aveva in animo era quello di realizzare una struttura in vetroresina grande, che fosse soprattutto attraversata da una luce modulare, in ogni angolo. Più che un’opera che si facesse ammirare per se stessa, doveva essere una forma che portasse a filtrare e modellare la luce, perché‚ il sole, e la luce che è vita, fossero la vera scultura, che tutti siamo chiamati ad ammirare per poterci rapportare con un fine, prima che sia la fine”.

Flavia Bugani


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Franca Cicognani:



L’ultima estate

L’ultima estate il sole nel cortile non tramontava mai, noi classe scalcinata di te avevamo sete.
L’eclissi era annunciata, ci stringemmo aspettando il buio falsamente indifferenti alla paura.
Sguardi si perdevano verso cosmiche profondità, poi… in una crescente intensità di azzurro comparve
una pecora,
un giubbotto a quadretti,
sassi, libri,
un cane, un topolino,
un grappolo di allievi,
musica,
un ventaglio di autoritratti,
lui,
l’orto,
il fumo di una sigaretta,
un lancio,
una gallina,
una accademia, un nipotificio,
bronzo, marmo, creta, colori, arnesi,
il maestro,
un cespuglio di bambù,
luce di polvere,
la vecchia stufa guerriera

...e giù verso di noi si srotolò un prezioso tappeto con trame d’audacia e d’amicizia, di studio, ricerca e progetti di umana solidarietà, ai bordi frange di vivida intelligenza e talento lo definivano.

La luna infine si impossessò del cielo, brillavano alte le stelle Carmen create e fasci d’argento illuminarono i tuoi crocefissi.

Franca Cicognani



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Enzo Dall’Ara:



Acrostico

Canta
Armonie
Remote,
Musica,
Estasi
Notturna.

Sfiora
Intime
Lampade
Votive,
Essenze
Scultoree
Trasudanti
Roveti,
Osannanti
Nobilitati
Incensi.

Enzo Dall’Ara



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Milvia Del Zozzo:



Perché l’oca

Ho vissuto l’arte a Forlì, nella mia prima giovinezza, attraverso la mediazione di mio padre. Tanto nette erano le sue considerazioni che difficilmente c’era spazio per un dissenso, ma anche solo per un “ma” o per un “se”. Del resto non era difficile essere d’accordo con lui. Non aveva pregiudizi, né scartava questa o quella corrente. La pittura, per esempio, quando visitavamo insieme qualche mostra, non importava se di pittori affermati o di esordienti, la giudicava, innanzi tutto, con due aggettivi “sporca” o “pulita” e intendeva apprezzare la sensibilità per il colore. Il tornare sulla pennellata già data, coprendola, pasticciando, rivelava per lui la mancanza di mestiere. La scultura? Ha lasciato scritto: “Una gabbia non è scultura. Scultura è una mela.” La forma piena, naturale che suggerisce una emozione.

Carmen era, per mio padre, una figlia d’arte, come lo sono stati, del resto, tutti i suoi alunni, nei quali riconosceva il dono della creatività. Soffriva se i parenti si opponevano alla scelta dei giovani di seguire la via dell’arte che, certamente, a lui non dava né ricchezza né riconoscimenti, ma era qualcosa che bisognava assecondare per non peccare contro natura.

Al Palazzetto dello Sport di Villa Romiti, dove insieme a mio padre ero andata per ascoltare Carmelo Bene recitare Dante, prima dell’inizio dello spettacolo, Carmen, che era nel lato opposto al nostro, ci vide e venne, si accoccolò accanto a mio padre, la sua figura dinoccolata rannicchiata in poco spazio, e parlottarono a lungo. Era una delle prime volte che vedevo Carmen. Così nel mio ricordo Carmelo Bene e Carmen si muovono su uno sfondo di luci, di ombre, nella gestualità e nella voce arrochita, poco più che un rumorio di ferraglia dell’attore.

Carmen, forte nella sua maturità, è nella luce degli spazi, al piano superiore del Palafiera, in una mostra collettiva degli anni ‘80, nella quale, accanto ad alcune sue opere, disegnanti nello spazio forme libere peduncolate, erano esposti i sassi che mio padre, con le ultime forze, aveva scalfito di linee e forme essenziali, per l’essenzialità della figura umana. Identica la gestualità di affetto nell’accogliere il vecchio scultore malato che, a fatica, aveva salito le scale, una attenzione che esprimeva l’esclusività del rapporto di amicizia e sapeva far sentire che in quel momento tutti gli altri non esistevano, con la ricerca di un luogo appartato e silenzioso in cui scambiare qualche frase, poche parole di scheletrica pregnanza ed essenzialità.

Quando l’associazione Melozzo progettò di organizzare una retrospettiva delle opere di mio padre, entrai per la prima volta nello studio di Carmen. Molte sue opere si capiscono in riferimento al luogo in cui sono state pensate e create e richiedono una particolare ambientazione. Così mi è sembrato che la più riuscita delle mostre di Carmen sia stata quella allestita, nel 1989, nella Rocca di Forlì, nei cui anfratti hanno trovato la migliore collocazione opere varie per ispirazione e sperimentazione, che hanno per questo bisogno di solitudine nello spazio di varia conformazione e non gli si confà la sequenzialità nell’ordine. Ma torniamo nello studio. Non ero certamente inesperta, né mi meravigliai, io che sono vissuta sempre fra sacchi, gesso e sassi, mi trovai a mio agio in un ambiente severo come una fonderia, col pavimento di terra battuta. In un angolo una cesta con una grande oca bianca, pettoruta, come tutte le oche, quando sgambettava in giro, mansueta, abituata alla colloquialità appena chiocciante con le persone. Carmen era divertita nella presentazione, ma tutti i convenuti alla riunione assecondavano questa non consueta coabitazione in uno studio d’artista; seppi che una pecora aveva preceduto l’oca come presenza viva nello studio. Era il piacere del giuoco o anche riconoscere che non solo l’uomo è misura di tutte le cose? Così l’opera d’arte, in una fase della ricerca e della sperimentazione di Carmen, non tiene più conto delle misure umane, ma si dipana in un lungo filo terminante in gomitolo, in viscere scoperte, in materia informe vivente.

Milvia Del Zozzo


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Antonio Giosa:



Carmen al di là del muro


Ero ancora studente quando ho conosciuto Carmen.

E’ stato agli inizi degli anni settanta; frequentavo il corso di scultura all’Accademia di Venezia ed ero animato dall’entusiasmo dei vent’anni e, sebbene preso da mille interessi e da un’attività frenetica, trovavo spesso il tempo di frequentare il suo studio.

Era lì, tra una montagna di libri, oggetti, ricordi di viaggio, attrezzi e materiali, che la potevo incontrare, sempre all’opera e sempre disponibile al dialogo, allo scontro e al confronto.

Ancora oggi i suoi ammonimenti e i suoi consigli mi sono utili ad affrontare il disagio di operare nel “sistema” artistico attuale.
Il suo modo di essere, così anticonformista, suscitava un fascino particolare su noi giovani; il suo entusiasmo ci scuoteva, ci ispirava e ci trascinava ad aderire alle varie attività che proponeva.

Giovanissimo, ho preso ad insegnare presso l’Istituto d’Arte di Forlì e quando, nel 1972, la sede è stata spostata in piazza Morgagni, negli edifici adiacenti la chiesa di S. Pellegrino, ho subito notato che lo studio di Carmen si trovava a ridosso degli uffici di segreteria e della mia aula.
Per venticinque anni (un quarto di secolo) un muro ci ha uniti e separati, allo stesso tempo.

Ogni giorno, al di là del muro, c’era Carmen, il rumore del suo “lavoro”, il belato della sua pecora era l’incoraggiamento costante a superare gli ostacoli, ed andare avanti.

I miei allievi diventavano poi suoi allievi all’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove lei deteneva da tempo la cattedra di decorazione plastica; erano altri fili che ci univano ancora di più, in uno scambio continuo di informazioni, opinioni e idee.
Ha dedicato tutta la sua vita, le sue energie ad esprimere il suo mondo e se n’è andata in silenzio troppo presto, quando aveva ancora tanto da dire e da fare, ma sino all’ultimo il suo entusiasmo è rimasto inalterato.

Il trasferimento della mia scuola, nella sede attuale, mi ha risparmiato il dolore di ascoltare ogni giorno un assordante silenzio al di là del muro, muro che è tornato ad essere un’anonima parete, che divide due edifici e non sarà più testimone degli straordinari eventi condivisi.

Antonio Giosa



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Secondo Giunchedi:



Un dolce, triste, vivo ricordo

Prima del 1991, anno di nascita dell’associazione “Sadurano Visual”, Carmen era per me solo una brava scultrice ma poi è divenuta, purtroppo per troppo poco tempo, una fonte semplice quanto “implacabile” di sapere nel campo della produzione artistica. Con “Sadurano Visual” abbiamo promosso una ormai famosa “Via Crucis” ideata e progettata da Carmen, dall’amico Gigi e da Don Dario a cui, per onore di verità, ho contribuito solo nella fase della sua promozione al pubblico. Un importante avvenimento culturale e artistico, prima ancora che religioso. Don Dario era orgoglioso di quell’iniziativa, perché sapeva persone con grandi differenze culturali e religiose attorno ad un messaggio della cristianità ricco di valori universali. Un esempio affascinante di rispetto e di forza morale il suo, in nome del quale Carmen si era appassionata e aveva lavorato con dedizione all’opera.

Il sodalizio nato con “Saturano Visual” mi ha consentito di conoscere più da vicino Carmen e di frequentare il suo splendido laboratorio riscaldato dalla “miracolosa” stufetta e impregnato di un fumo denso che, pur essendo io sofferente di asma, mi appariva meno ostile in quel contesto. Quando entravi nel suo laboratorio sentivi di avere di fronte un’autentica autorità nel campo della produzione e della sensibilità artistica. Io indossavo i panni dell’allievo negligente, refrattario ai messaggi dell’arte moderna. Confesso che la cosa mi divertiva molto. Posso affermare che quei dialoghi nei quali si intrecciavano “gioco delle parti” e lezioni di cultura e storia dell’arte, sono risultati molto “formativi”, al punto che oggi rappresentano per me un dolce e vivo ricordo.

Le mie povere argomentazioni sull’arte erano provocazioni per lei ed io non facevo altro che renderle estremamente evidenti. Carmen era a volte paziente nell’educare il rozzo “critico” d’arte che io rappresentavo, ma a volte stava al gioco e allora non vi dico quanto sapeva essere pungente e ironica, ma mai offensiva. La sua cordialità era fuori dagli schemi perché sincera e mai ipocrita e, anche quando si esprimeva con linguaggio immediato, metteva sempre a suo agio l’interlocutore.

Per me e per Gigi il discorrere nel “salotto” di Carmen, seduti sull’elegantissimo e vecchissimo divano, non era della serie “fai finta di essere a casa tua”. Noi, immaginando la casa come il luogo dove ci si sente a proprio agio, ci si sentiva veramente a casa nostra nello studio di Carmen. Si faceva “salotto” e si usciva con la sensazione di aver ricevuto qualcosa, di essersi arricchiti. Quel salotto aveva la magia di trasformare il tempo “perso” in tempo guadagnato.

Oggi sono percorso da una sensazione dolce ma che mi rende triste. Solo ora capisco il significato pieno delle sue parole, delle sue scarne ed essenziali spiegazioni sul modo di porsi di fronte ad un’opera d’arte e penso che quell’angusto laboratorio, quelle “poltrone”, la stufetta e Carmen con la sigaretta fra le mani in mezzo al “disordinato” giacere delle sue creature, resteranno nella mia memoria come l’immagine di una grandiosa magnifica e irripetibile opera d’arte. Più s’allontana il tempo della sua scomparsa più forte sento la mancanza di quelle sensazioni, di quella presenza e dei suoi inconsapevoli penetranti messaggi.

Secondo Giunchedi


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Antonella Imolesi Pozzi:



Buone vibrazioni

Quando mi è stato proposto di scrivere di Carmen ho pensato che non avrei potuto descrivere in poche righe l’intensità di un rapporto tanto importante e complesso come quello che mi ha legato a lei.

In un primo momento ho pensato di risolvere il problema parlando dell’artista, del suo lavoro, in modo tecnico, asettico.

Ho scelto poi invece di affrontare le emozioni ed eccomi qui di fronte al foglio bianco a cercare le parole più giuste per parlare di lei (e di me e di mio padre), con pudore, con fatica.

La ripenso con gli occhi dei miei nove anni. Sono entrata, bambina, per la prima volta nel suo studio di via S. Pellegrino Laziosi. Mio padre mi accompagnava e mi introduceva in una parte della sua vita che io, fino a quel momento, non avevo conosciuto. Carmen è stata una persona importante nella sua breve esistenza e da quel momento lo è diventata anche per me.

Mi sono trovata di fronte ad un grande foglio dove ho disegnato per un intero pomeriggio, e ho scoperto che quel foglio e quei segni sulla carta erano un modo per mettersi in contatto con lei, per dirle quello che ero e che pensavo.

Disegnare, in quel “luogo non luogo” che era il suo studio, così diverso da una casa e da qualsiasi luogo di lavoro, non era un faticoso compito, diventava facile perché sentivo che il mio disegno non sarebbe stato giudicato con i parametri estetici del bello e del brutto, della correttezza dell’esecuzione ma con lo sguardo benevolo di chi desiderava darmi l’opportunità di esprimere la mia fantasia di bambina con un mezzo che non mi era congeniale come la scrittura, la parola o il gioco.

Intorno a me oggetti insoliti, ricordi dei suoi viaggi nei paesi del sud del mondo, regali degli amici, disegni, sculture e poi, soprattutto, la musica.
Lei era appassionata di jazz e di musica classica ma insieme con me, assecondando le mie preferenze, ascoltava le grandi voci nere del blues: la tristezza struggente delle canzoni di Sarah Vaughan e di Aretha Franklin ci avvolgeva, ci accomunava come il difficile amore per mio padre, ci raccontava il dolore, la fatica, la delusione delle donne ma anche la loro energia, la loro forza di lottare.

Erano anni pieni di “buone vibrazioni”, quelli (good vibrations, do you remember?). Anni in cui si presentivano grandi cambiamenti, in cui si respirava un’aria nuova che attraversava l’arte, la musica, la vita e anche nella provincia addormentata, in un angolo di questa città, in quello studio arrivavano le ribellioni che agitavano le coscienze in quegli anni, la nuova consapevolezza raggiunta dalle donne, le rivendicazioni a stili di vita e a comportamenti più liberi e non convenzionali, il rifiuto costante di tutte le ipocrisie e i conformismi in nome di una moralità nuova eppure antica, di un rigore che aboliva l’omologazione massiccia e le scelte di convenienza.

Cerco di ricordare i suoi lavori di quegli anni per ricostruire l’immagine dell’artista ma evoco in realtà il suo volto: il volto scavato di tanti autoritratti, il volto di una giovane donna che aveva scelto l’arte nella forma difficile e “virile” della scultura, che viveva in modo insofferente, provocatorio e a volte conflittuale il rapporto con la sua città, così avara di riconoscimenti verso il suo lavoro. Ricordo il dolore che le procurava non essere “riconosciuta” e nel contempo l’orgoglio che la portava a non chiedere attenzione, a non muovere un dito per ottenere uno spazio espositivo, a non scendere a compromessi, a mantenersi fedele al suo linguaggio espressivo anche quando i modi dell’astrazione e della scomposizione futurista delle forme e dello spazio, che le venivano dall’insegnamento del suo maestro Umberto Mastroianni, sembravano superati ed erano snobbati dalle logiche del mercato che si muoveva verso un ritorno al figurativo.

Continuava a lavorare con applicazione inesausta, studiando con meticolosità artigianale le possibilità delle materie più diverse: la creta, il marmo, il bronzo, il gesso e infine la cartapesta.

Io, con il naso all’aria e le gambe nude in una minigonna che sfidava il “comune senso del pudore”, arrivavo con un pacco di ellepi sottobraccio, entravo in quello spazio leggendario che era lo “studio”, approdavo al vecchio divano come a una zona franca dove le preoccupazioni amorose della mia adolescenza, le ferite e gli abbandoni dell’infanzia svanivano insieme alle ansie per il compito in classe del giorno dopo, mettevo un disco e iniziavo a raccontare di Mick Jagger e di Jim Morrison come fossero i fratelli maggiori che non avevo avuto, le portavo le novità discografiche che qualche amico mi aveva mandato dall’Inghilterra e le spiegavo che le note rauche di Janis Joplin non erano poi così lontane da quelle di Aretha Franklin.

Lei annuiva, ascoltava attenta continuando a lavorare: io la guardavo affascinata dalla sua manualità e dall’abilità prodigiosa con cui realizzava nella creta i pensieri. Mi piace pensare che quelle forme sono nate dalle mani che si muovevano al suono della musica che è stata la colonna sonora della mia adolescenza e che la maturità di Carmen si è nutrita di quelle note che i suoi coetanei rifiutavano perché consideravano con sospetto, non riconoscendosi in un linguaggio musicale di un’altra generazione.

Una delle capacità prodigiose di Carmen era quella di accogliere l’altro, il diverso da sé. Lei viveva “senza filtro” o, come ebbe a dire qualcuno, “si lasciava abitare”. In quegli anni il suo studio, sempre aperto a tutti, con la chiave sulla serratura che invitava ad entrare anche quando lei non c’era, era la meta di una varia ed eterogenea umanità.

Ritornando a quei giorni trovo un tratto comune a tutti i frequentatori dello studio: la fatica di vivere, l’insofferenza agli schemi, l’irregolarità.
Si varcava quella porta sicuri di essere accolti, per una strana alchimia in quel luogo si ritrovavano accanto le persone più diverse: giovani artisti, allievi, annoiate signore radical-chic, poveri diavoli, nascevano relazioni intense, ci si sentiva accettati, si riconosceva una reciproca appartenenza, si stabilivano contatti, fra ambienti diversi e distanti. E lei era il fulcro e il catalizzatore di tutte queste energie.
Mi piaceva la sua stravaganza, il paracadutismo, (l’hobby che condivideva con mio padre), il fatto che allevava una pecora che le era stata regalata da un amico, la rendevano speciale ai miei occhi e la presentavo come un trofeo ai miei amici, stupiti e affascinati dai suoi modi anticonformisti e diretti, dalla sua generosità e dalla sua ironia dissacrante.

Mi piaceva tutto di lei anche i difetti – l’essere sempre sopra le righe, la polemica a oltranza, l’intransigenza - imparavo a vivere seguendo il suo modello.

Mi spingeva a scrivere perché credeva che la scrittura fosse la modalità di espressione che mi era più congeniale.

La morte di mio padre nel 1980, mi ha fatto temere per lei, come per mia madre. Ho avuto paura che entrambe non potessero sopravvivere alla perdita della persona che avevano tanto amato. Mia madre mi ha lasciato dieci anni dopo. Mi restava Carmen la mia “vice - mamma”.

E’ stato per me un sollievo vederla buttarsi con rinnovato entusiasmo nel lavoro. E’ stato allora che ho riflettuto a lungo su quello speciale rapporto che ci legava. Mi sono resa conto di avere sperimentato una solidarietà femminile rara e preziosa, mi sono accorta che io, lei e mia madre eravamo legate da un affetto profondo e che l’amore per mio padre, che tante volte ci aveva diviso e fatto soffrire nel suo bisogno di esclusività, ci accomunava in un destino di fedeltà a lui e a noi stesse.

Antonella Imolesi Pozzi


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Giovanni Matteucci:



Segni che fanno parlare

Nel catalogo della mostra collettiva “Arte e ambiente” che si tenne a Forlì nel 1994 si vede la migliore presentazione della figura e dell’opera di Carmen Silvestroni. Le quattro pagine che le sono dedicate sono riempite solo da due foto in bianco e nero che la ritraggono una all’opera, una con cane in groppa. Non so perché qui – a differenza degli altri artisti documentati – di Carmen non appaiano né riproduzioni di opere esposte né profilo critico e curriculum. Ma oggi mi sembra che in tal modo le abbiano reso un buon servizio. Carmen ha infatti improntato la sua attività alla sottrazione: di materia, di presenza pubblica, di parole. Ed essere rappresentata da due foto in bianco e nero credo che sia la maniera più eclatante, rumorosa ed evidente di sollecitare all’ascolto e alla visione non delle sue sembianze ma delle sue creazioni – motti ironici e segni materici. Quando la dimensione dell’apparenza non è più prevalentemente propria dell’arte, e al contrario è diventata elemento che avvolge quasi ogni attimo dell’esistenza, si creano opere con due diversi propositi: o per fare proliferare ulteriormente l’apparente, o per arrestare il vuoto agitarsi quotidiano e sollecitare riflessione. La contraddizione che si esprime nella tensione sottesa alle opere di Carmen è, appunto, il paradosso di cercare apparenze non apparenti, o almeno non appariscenti. Che non vuol dire rinuncia, poiché è un paradosso coerentemente tradotto in segno quello che informa la materia plasmata da Carmen.

Sospeso l’apparente, zittita la fanfara dei propositi d’artista, restano con sorpresa forme centrate sulla figurazione dell’umano. Sottrarre rumore, orpelli, stereotipi e convenzioni significa per Carmen imprimere alla materia tutti e soli i tratti essenziali delle forme umane. Sono tratti essenziali nel senso di semplici, o perché azzerano i connotati, o perché restituiscono le sembianze più intime della stessa Carmen. Si coglie così una ricerca sull’enigma dell’individuo, che può sprofondare nel sé ma anche infrangersi nella impenetrabilità dell’altro. È quindi la presentazione di una essenza che non vive se non nelle serie metamorfotiche delle figurazioni eseguite. Lo rivela la sequenza seriale di moltissime opere: visi, autoritratti, pose, variazioni prospettiche, traslazioni di geometrie astratte, incantesimi di leggere pesantezze, che spesso compongono realtà modulari. Nel tracciare questo percorso Carmen confida in non più che un senso eventuale, che esiste per un breve arco di realtà, ed è imprigionato nella progressione figurale dei corpi.

Torniamo al catalogo del 1994. Le foto di Carmen sono isolate. Intorno, nella pagina, non v’è che bianco, e né prima né dopo si scorge un contesto che le renda anche solo plausibili. È un isolamento che credo Carmen avrebbe accettato di definire “metafisico”. Così infatti chiamava il suo contesto urbano, ragione di conflitti e amarezze. Rimase però a Forlì, sottolineando così quanto fosse necessario per la sua opera la rarefazione di una “città metafisica”, in cui l’urlo tanto più è udibile quanto meno è sopportabile, come un sibilo ignoto. Esercitarsi nell’apparenza senza apparire e senza rendere appariscente è un gioco arduo, ma anche uno dei pochi modi per rimanere produttivi in tale situazione. Carmen ne trasse la spinta a retrocedere l’Arte ad arte, talora addirittura ad artigianato, e finì per acquisire una maestria straordinaria nel plasmare esperienza, elevando barriere insormontabili contro il dilettantismo compiaciuto. Seppe conoscere assimilare e dimenticare i linguaggi espressivi più vari, derivando dal suo contesto evanescente, oltre che rabbia, l’occasione di saggiare la concreta efficacia degli stili: nella evanescenza ciò che resiste non può che possedere forza intrinseca.

Per questo Carmen è grande: resta muta di fronte a chi non sa che chiederle, fa parlare chi le chiede segni.

Giovanni Matteucci


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Luciana Palma:



La mia Carmen

Io vivo ogni giorno la Carmen perché ne ho troppo bisogno, è stata troppo presente nella mia vita perché io vi possa rinunciare.

Abbiamo studiato la dottrina a Ravaldino insieme, ci siamo confidate per anni le nostre sofferenze d’amore, condiviso la grande passione per i viaggi che ci ha portato a vedere, ancor prima dei figli dei fiori, luoghi e persone che oramai non esistono più. Ci univa una passione per la scoperta dei luoghi e dei popoli tutta ulissiana, e per realizzare i nostri viaggi avventurosi e spericolati, lasciavamo i nostri reciproci affetti, io addirittura marito e figli piccoli in tempi ben lontani dagli attuali contatti telefonici!

E poi, ci univa la natura, anzi, è lei che me l’ha fatta conoscere. Lei abitava in campagna (allora era tale, la via dell’Appennino, e la sua casa era immersa in un grande giardino e campo coltivato), io ero cresciuta nelle batterie degli appartamenti cittadini ed il mondo della terra mi era sconosciuto. Quando l’andavo a trovare lei mi portava nel campo e mi spiegava il linguaggio delle piante, dei fiori, degli animali: mi insegnava a riconoscere gli uccelli dal canto, a veder nascere le gemme, mi spiegava le varie qualità della terra, che amava già allora toccare e plasmare, creando figure stilizzate e pelate, forse negroidi, che mi incantavano per la plasticità delle forme. La passione e la conoscenza della terra, ereditate da suo padre, la rendevano unica nel coltivare l’orto, che teneva rigoglioso e perfetto, più tardi, nel cortile dello studio. Passava ore e ore a zappare, rastrellare, coltivare, e l’orto di Brenno, dell’Albertina e della Fede, era diventato un piccolo giardino incantato.

Ora anche io non so vivere senza l’orto, nonostante le mie ossa rotte, e senza rendermene conto, applico quotidianamente ciò che le ho visto fare tante volte nei nostri pomeriggi, mentre io le raccontavo e lei lavorava e mi ascoltava.

La sua capacità d’ascoltare era unica: chi non andava a confidare le sue pene segrete da lei? Solo lei ti faceva sentire che dicevi cose importanti, che parlando si sarebbero potute trovare soluzioni, come se fossi da uno psicanalista gratuito: lei ti ascoltava, poi aveva un modo tutto suo per analizzare quello che avevi detto e farti capire cosa non funzionava, aveva una innata capacità di analisi ed una profonda conoscenza dell’animo umano, arricchita dalle mille esperienze di vita vissuta e dalle sue infinite letture. Attirati da questa sua particolare attitudine tutti i nevrotici, i depressi, i problematici, prima o poi arrivavano nel suo studio e si fermavano ore e ore stravaccati nei suoi divani a mo’ di lettino, a succhiare la sua energia ed a strizzarle il cervello, fino allo sfinimento, disturbando il suo lavoro: all’epoca della povera Dea infatti la Carmen era distrutta, perché la sua generosità la rendeva assorbente e quindi fragile.

Talvolta non ce la faceva più e si ribellava, anche con violenza: la Carmen era un’esplosione di emozioni e di rabbia, domata però da una razionalità ed obiettività eccezionali, era un cocktail unico.

Era una gioia vederla lavorare, perché ti trasmetteva le tecniche e le emozioni, ti faceva partecipare all’incanto della CREAZIONE, con la sua innata arte di insegnare.

Quando la Carmen produceva la SCACCHIERA io le ero vicina ed ho viso creare la sequenza delle figure, con lo stesso entusiasmo col quale parlavamo di femminismo e dei nostri ideali politici. Io allora ero impegnata attivamente nel movimento di liberazione della donna. Non posso descrivere l’emozione che mi trasmetteva quella sequenza di elevazione e liberazione: specialmente l’ultima figura, ormai eretta, rappresentava per me il successo finale di tutto ciò in cui credevo. Sono stata sempre una inguaribile ottimista, e la Scacchiera per me continua a rappresentare il riscatto finale e la gioia della ribellione e della liberazione.

E’ l’espressione più completa, la rappresentazione artistica dell’insegnamento di vita che la Carmen mi ha lasciato, come preziosa eredità: LA SUA INTENSA E TOTALE LIBERTA’ DA TUTTO CIO’ CHE E’ CALCOLO, MESCHINITA’ E LA SUA RIBELLIONE ALL’INGIUSTIZIA E ALL’OPPRESSIONE.

Luciana Palma


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Rosanna Parmeggiani:



La bellezza di Carmen

Qualche giorno fa un’ex alunna mi ha confidato qualcosa che negli anni trascorsi dal diploma non aveva ancora espresso.
In lei coglievo un certo rammarico per quella passione che ormai le apparteneva, ma anche una dolce forza, quando ammetteva che altra scelta non avrebbe potuto fare.

I suoi interessi maturati negli anni, gli studi intrapresi, le amicizie preziose, gli amori sbagliati, il lavoro altro fatto per mantenersi, la pienezza e la malinconia del suo “fare”, l’hanno portata a capire che la ricerca artistica non paga, ma che ormai non ne può più fare a meno.

Non ho potuto che ripensare a Carmen e a quanto la mia presunzione tenda a somigliarle, almeno nel lavoro a scuola.

All’Accademia di Belle Arti lei è stata per me l’unica vera Maestra … con sincerità estrema e attento rispetto, con tranquilla saggezza ed un esempio che resta, mi ha aiutato a scegliere una strada, quando l’entusiasmo mi suggeriva ancora troppi percorsi.

E nel suo studio, assieme agli altri allievi di vita, l’ho avuta come amica… in quel luogo dove si toccava con mano che BELLEZZA e UMANITÀ sono strade gemelle.

Ai suoi allievi Carmen diceva spesso che l’artista di oggi è colui che riesce a promuovere il proprio lavoro, ma che al di là dei riconoscimenti, non cessa la sua ricerca.

Ho seguito con incanto quelle lezioni d’arte e di vita, ma non sono stata una brava allieva, perché non ho saputo “fare per il fare”.

Ma questo forse è un compito ancora da svolgere.

Rosanna Parmeggiani


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Daniela Piccari:



La porta era aperta

Quando entravo nello studio della Carmen mi sentivo subito bene. Non mi spariva il mal di testa o la stanchezza con cui arrivavo spesso, ma mi riempiva lo sguardo di lei ironico e decisamente comprensivo. La libertà di poter essere se stessi in quel luogo era totale. C’erano tante persone che andavano lì perché era uno spazio pieno. Pieno di lei che parlava quasi di continuo mentre lavorava come lucidasse il suo cervello e il nostro. Non le era indifferente l’inclinazione del pensiero mentre guardava e manipolava la creta, carta, resina, insomma la sua materia. Gli argomenti erano tutti rivolti all’arte di vivere come se fosse necessario cambiarsi continuamente la testa piuttosto che il vestito per vivere e fare arte. E noi dicevamo la nostra mentre scivolavano via pennellate di colore. Perché tutti facevano qualcosa mentre stavano lì – io mi sono ritrovata con un pennello in mano nonostante sia negata per la pittura! – Era proprio una maestra! Ci faceva fare e poi rimediava l’irrimediabile. Passavamo delle ore senza accorgercene come quando si fa musica: il tempo diventava ritmo.

Un altro spazio e un altro tempo era la Carmen.

Alle persone che l’avvicinavano rendeva concreta e visibile la dimensione creativa. Quando le chiedevo pezzi di scenografia per i nostri spettacoli oppure oggetti di scena sapevo che avrebbero avuto la sua impronta evidente come quell’accetta enorme per Turandot. Quando l’ebbe finita mi fece notare tre punte che facevano da sega al finale della lama - “Così è crudele” commentava -. Poi una corona a cui aveva sconvolto le proporzioni. Commissionarle una cosa qualunque come un paio di scarpe a punta le provocava l’immaginazione e la metteva in moto come se fosse tutto semplice e nello stesso tempo solenne. Il risultato per noi era ricevere un paio di scarpe con una punta che non avevamo proprio pensato nonostante gliel’avessimo richiesta, un pezzo di costume teatrale che ha contribuito enormemente al successo del personaggio.

Oggi non ho nemmeno il rimorso di non averla ringraziata abbastanza perché di ringraziamenti non ce n’era bisogno, erano impliciti in qualcosa di più grande che era l’amicizia. Era lei a dire che credeva nell’amicizia in modo assoluto e io credo che la sua grande opera sia quel segno invisibile che ha inciso nella materia di cui sono fatte le persone che l’hanno conosciuta e che traspare dalle sue sculture come energia vitale.

Daniela Piccari


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Carla Poggi:



Tu, Carmen, sei stata il mio Pigmalione!

Mi manchi per quel tuo viso un po’ burbero, pronto però al sorriso, per quel tuo modo di incitarmi al lavoro un po’ severo, da insegnante, ma sempre facendomi osservare qualcosa di positivo, per poter continuare ..con più carica.

Mi manchi per quei pomeriggi quando, nel tuo studio ascoltavo musica classica in mezzo a un caos di oggetti strani, materiali, attrezzi e galline e ti ascoltavo guardandoti mentre tu, continuando a lavorare, giocavi con un bambino che ti veniva a salutare o mi rendevi subito partecipe di una conversazione che si stava svolgendo con qualche tuo vecchio amico (quanti amici hai!) che, come me, passava dallo studio per organizzare, per chiedere o solo per fumare una sigaretta e se ne usciva poi, come me, con qualcosa di nuovo ...DENTRO. Mi ricordo, tanti anni fa, ti ho conosciuto a Bologna , in Accademia, tu: insegnante, io: allieva, e ricordo la mia ammirazione per te LIBERA, libera nel modo di fare, senza conformismi, e soprattutto libera nelle idee, rivolta sempre in avanti verso la scoperta e la sperimentazione e ricordo soprattutto quando ti ho ritrovata (perché io mi ero persa!) e sei stata il mio pigmalione! Perché è stato per merito tuo, per quella tua voglia di vivere e di fare che riuscivi a trasmettermi che io ho ripreso a dipingere, ricordi? Mi hai organizzato la prima mostra di pittura! Ora io continuo a lavorare sempre con quel desiderio di vivere e di sperimentare che mi hai insegnato tu e ogni volta che sono piena di dubbi, di domande alle quali non trovo risposta mi rivolgo un po’ a te, anche se non ci sei più, e cerco di ascoltare ancora cosa mi diresti ...ma ...mi manchi.

Carla Poggi


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Rosanna Ricci:



Carmen Silvestroni

Viviamo in un periodo storico che forse è il più complesso o per lo meno fra i più difficili ed inquieti della storia dell’arte. I “movimenti” artistici nascono e si concludono con una rapidità sorprendente. La stessa rapidità che oggi veicola, in un frenetico avvicendamento, i prodotti commerciali dalla tecnologia sempre più innovativa e perfezionata. Un artista, quindi, per essere al passo coi tempi, deve filtrare con sensibilità i fermenti e le situazioni del momento in cui vive attraverso un confronto aperto ed oculato fra sé e la realtà, con tutte le implicazioni di carattere emotivo, psicologico, introspettivo, sociale, politico che ne derivano. Le tecniche artistiche (da quella figurativa all’astrazione, dal materico al multimediale e relative contaminazioni fra loro) diventano poi una scelta personale che sarà sempre più originale quanto più vi sarà identità fra quelle e la sincerità dell’artista. In periodi inquinati da numerosi “ismi” e da eventuali sollecitanti promesse di mercato che potrebbero solamente incarcerare la libera espressività dell’artista, Carmen Silvestroni ha vissuto il contatto quotidiano col suo “fare arte” e col mondo dell’arte che le gravitava intorno, con estrema onestà e sincerità. E’ facile oggi, anche se a distanza di pochi anni dalla sua scomparsa, parlare di lei come scultrice autentica, determinata nelle scelte, decisa fino a pagare sulla sua pelle un’operazione culturale che poteva anche andare contro corrente coi gusti della provincia in cui viveva. Difficile è, invece, renderci pienamente conto delle tensioni, della faticosa conquista, della sdegnata opposizione a qualsiasi forma di compromesso, della grande libertà e liberalità, della disponibilità verso gli altri, dei momenti di sconforto, delle angosce e della forza nel procedere a tutti i costi che hanno reso “fortemente vissuta” la sua esistenza. Carmen non poteva, per natura, essere altro che la persona generosa che tutti abbiamo conosciuto. I soldi, il successo, erano per lei elementi poco determinanti, tanto che preferiva donare piuttosto che ricevere. Si privava con gioia di alcune sculture offrendole a sostegno di problemi sociali o di cause umanitarie. Non aveva mire di protagonismo ed era sempre pronta a collocarsi in secondo piano per far emergere un giovane che, pur affascinato dal temperamento e dalla perizia dell’artista, desiderava farsi conoscere. Per questa sua straordinaria umanità ha lasciato, in chi le ha voluto bene, tanto rimpianto. Nel campo dell’arte era versatile, intellettualmente curiosa, attenta osservatrice senza però esprimere giudizi non convalidati da una lunga riflessione e da un coinvolgimento personale. Era intransigente contro la superficialità e l’opportunismo, ma pronta a giustificare, e soprattutto a comprendere, gli errori altrui; era, infine, un personaggio “scomodo” per eventuali oppositori, sicuramente però, “affascinante” per tutti. In lei interagivano, con equilibrio e solidità critica, cultura, sensibilità straordinaria, perizia tecnica. Poiché non faceva nulla per mettersi in mostra o cercare facili consensi, una buona parte della sua produzione era poco conosciuta. La mostra antologica, allestita nel maggio-giugno del 2000 in varie sedi di Forlì e Bologna, ha permesso di approfondire alcuni aspetti della ricerca di questa artista forlivese che tanto ha dato alla sua città e non solo per le numerose opere d’arte che sono presenti in chiese, in ambienti pubblici e privati, ma soprattutto perché per molti anni è stata una delle figure artistiche di maggior rilievo e di costante riferimento della vita culturale cittadina. Nata a Forlì nel 1939, Carmen si era diplomata all’Istituto per la Ceramica di Faenza e all’Accademia di Belle Arti di Bologna, presso quest’ultimo divenne titolare della Cattedra di plastica ornamentale. Carmen aveva un grande talento che le permetteva di essere se stessa qualunque fosse il materiale che usava. Era persuasiva nei disegni e nei dipinti in cui, specialmente in quelli degli ultimi anni, proponeva, con ammiccante ironia, un’indagine introspettiva di notevole rilievo.

Di ogni materiale (argilla, ferro, carta, gesso, collage, cartapesta) l’artista sapeva sfruttare le possibilità espressive, adattandole alle tematiche che prediligeva ossia la condizione umana colta negli aspetti più intriganti e a volte bizzarri (es. “Arrampicata sugli specchi”, “Uomo fasciato”, “Siamo soli nell’universo”, “Linguacciuti”, “Catatonico”, “Adamo ed Eva”, “Impalzè”). E poi i “Sassi incantati”, una delle più suggestive ed originali creazioni di Carmen: una serie di grandi sassi in cartapesta oscillanti su esili e contorti fili di ferro. L’autrice sembrava voler alludere alla levità ed inconsistenza delle cose, anche di quelle più pesanti o che generano inquietudine, “… le cose - scrive Rosalba Pajano - non sono quelle che sembrano, realtà e finzione si mescolano…” L’opera, in questo caso testimonia il turbamento dell’artista per una situazione che trascende il personale per assumere una dimensione universale.

La prima personale di Carmen Silvestroni risale al 1966, presentata dal suo maestro Umberto Mastrioianni, della cui opera, dall’intonazione futurista, l’artista forlivese sentiva il fascino. L’abbandono del linguaggio futurista segnò l’inizio di un’operosità personale, piena di forza, di incisività, di una inestinguibile energia e di una sorprendente carica vitalistica in perenne e vibrante colloquio sia con l’indagine introspettiva sia con l’asperità di una materia divenuta, nelle sue mani, docile strumento per materializzare sensazioni, emozioni, conoscenze, a conferma di quanto l’arte sia immersa nella vita e la vita nell’arte. Elementi, questi, costanti nell’opus dell’artista. Le allusioni, le metafore (“La scacchiera”), ciò che di enigmatico e di ambiguo è presente nell’uomo, diventano i nuclei di operazioni artistiche indagate da Carmen con serietà e pazienza. I personaggi, le situazioni, gli oggetti, dietro i quali si celava l’artista, denunciano drammaticamente e con forte partecipazione poetica, la condizione alienante che l’uomo oggi è costretto a subire. Anche se talvolta sembra non apparire con dichiarata evidenza, nelle opere della Silvestroni c’è una profonda e vissuta coerenza, sia per le tematiche indagate, sia per l’amore appassionato per i materiali, sia per il modo di porsi o, come abbiamo detto, di confrontarsi con le cose e nei rapporti col mondo. Quindi coerenza del sentire e dei modi che lo esprimono. Talora, la sicurezza dei mezzi espressivi e la pulizia formale, paiono insidiate da incertezze: la trepida esigenza di comunicare il “suo” rapporto col mondo sembra nascondere il timore della fugacità delle cose e di conseguenza dei loro rapporti. Per contrastare tale minaccia, l’artista rafforzava le difese attraverso l’ironia che da toni sorridenti sconfinava in soluzioni drammatiche ed enigmatiche come ad es. le corde che uniscono le due metà di una testa o l’involucro che racchiude un corpo umano oppure il gomitolo cacciato nella bocca (“Teseo”). E ancora: i serpenti che non solo nella “Medusa” ma in altri visi prendono il posto dei capelli; oppure l’insistenza ossessiva, carica di valore allegorico, di linee verticali al posto del corpo o della pavimentazione, fino al tragico e presago autoritratto monocromatico del 1995 “Sono stanca”. Due anni dopo, nel 1997, Carmen muore dopo una malattia sopportata con coraggio e dignità, mentre faceva progetti che, troppo consapevole e intelligente per non accorgersene, erano solo un sogno destinato a dissolversi a troppo breve scadenza.

Rosanna Ricci


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Miriam Ridolfi:



A Carmen

Di certo i miracoli sono un dono di fede, tanto più grandi quanto più autentica è la carità. Dice don Rino di mio padre – che sempre ha ringraziato Dio con semplicità d’averlo fatto salvo in guerra, pur dopo lunghi mesi di calvario – che il miracolo è stato l’incontro della sua volontà di salvarsi, col pensiero fisso a mia madre, che con altrettanta forza lo rivoleva, a mia sorella, appena nata, che aveva visto soltanto per un’ora prima di partire per il fronte albanese. Don Rino gli ha detto che da quel ritorno sono poi nata io, che, con “dolce bontà d’animo”, ne avrei scritto la storia. Era contento per questo grappolo di parole, oggi, mio padre, che ancora con tenacia riflette sulla ricchezza della sua vita che, dice, siamo noi, i suoi figli.

Mia sorella è andata in questo mese in viaggio in Cina; - “Mi sono mancate le sue visite e mi ha dato sgomento che fosse così lontana” - dice e con impazienza l’aspetta.

E’ fiero particolarmente di Laura, figlia di mio fratello, che, superati ormai tutti gli esami, sarà medico il prossimo anno e seguirà suo padre nel lavoro e nell’impegno. E’ sicuro che la vedrà laurearsi e anche questo gli sembra un’importante tappa del suo miracolo di vita.

Anche se in questa Casa di riposo, dove si respira l’attesa della morte che sceglie a caso e senza mai un ordine, è una gioia venire da mio padre, ogni settimana: questa continuità mi dà memoria del tempo dell’infanzia, della casa, dei tanti volti amici che si son dispersi.

E su quel vecchio ponte, che porta a Vecchiazzano, chiuso alle auto, che scorrono veloci sulla nuova strada per san Varano, seguo il passaggio delle stagioni, sempre uguali e sempre nuove, sugli alberi e sui fiori che si colorano con più intensità per l’acqua del fiume che qui ristagna, asilo di pesci e di uccelli.

E posso andare da Carmen che ha fatto per me questo miracolo: vado contenta al cimitero, come a trovare un’amica cui portare “storie” che per questo ha senso scrivere.

Margherite son nate
sul cumulo di terra
che è suo,
come la foto
e il pianto
di chi l’ha amata.

Forse perché su quel cumulo di terra si può piantare un fiore, forse per quella croce di piante, con Carmen si stabilisce una “corrispondenza d’amorosi sensi”, che sembrava solo un ricordo di versi di scuola.

Le porterò la mia ultima storia sulla “visitazione” di Palmezzano, pittore della nostra città che mi ha insegnato ad apprezzare; e continuerò a parlare con lei, meno assente, pur senza esistere, di tanti che mi passano a fianco.

Del resto io ancora la vedo, alta e fiera, venirmi incontro come un nocchiero, ancora sento la sua voce unica, ancora tocco le sue sculture, ancora ricordo l’odore del suo studio, insieme di terra e di gesso e quando mangio non dimentico quel pranzo di cartapesta e quanto lei diceva che “niente è più gustoso di un semplice uovo fritto”.

Miriam Ridolfi


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Franca Sabbadini Babbi:



In memoria di Carmen

Carmen Silvestroni è stata una socia fondatrice della Fidapa: quando alcune donne di Forlì e di Cesena, nel 1993, si ritrovarono per la prima volta alla Fattoria Paradiso per cenare insieme e costruire un gruppo di attività e di opinione, noi eravamo forestiere l’un l’altra e per questo cercavamo di conoscerci, eravamo diverse e questo aumentava la curiosità e l’attrazione.

Aperta, cordiale, dirompente, originale, spontanea e unica: questi sono i primi aggettivi che mi vengono in mente nel ricordarla quando la conobbi quella sera.

Un pomeriggio ci guidò in una sua mostra ed io mi incantai davanti ad un suo quadro fatto con piccoli, lisci e piatti sassolini di fiume che occupavano un angolo inferiore del quadro e… poi… continuavano coprendo la cornice, …fino a scivolare via e cadere fuori dalla cornice stessa. Provai una bellissima emozione davanti a quel quadro e girovagando per la mostra compresi la genialità artistica di Carmen.

Nel partecipare a questo progetto per la fusione in bronzo de “La Scacchiera” tutte noi socie Fidapa ci siamo sentite emotivamente molto coinvolte e felici di contribuire alla valorizzazione di un’artista, di una nostra socia, e di continuare insieme quel cammino per l’emancipazione della donna che ci eravamo preposte fondando la sezione di Forlì - Cesena.

Franca Sabbadini Babbi
Presidente Fidapa sez. di Forlì-Cesena
Biennio 2000-2001


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Tonina Santi:



Del tempo triste non voglio parlare

Con difficoltà cerco di ricomporre l’affollarsi dei ricordi di una vita attraversata in modo così profondo dall’amicizia con Carmen.

Carmen aveva 16 anni quando ci siamo conosciute. Rammento che molte delle nostre discussioni vertevano sulla fede religiosa, dato che a quel tempo cominciavano ad affiorare in me i primi dubbi. Mi propose allora di partecipare insieme a lei ad un corso di esercizi spirituali di tre giorni a Meldola, dedicato appunto all’argomento della fede. Ricordo che ci era stato imposto di osservare la regola del silenzio, per dare spazio alla meditazione. Devo dire che per me, che sono una chiacchierona ancora oggi, fu molto faticoso non trasgredire. Non fu così per Carmen, che passò la maggior parte del tempo intenta a trasformare i blocchetti di fango, che traeva dalla parte più umida del giardino del Seminario, in piccole statuine. Fu un apparire di visetti, esili figure che presto scomparivano, per riutilizzare la poca materia a disposizione, e presto riapparivano in nuove e svariate forme. A me pareva una cosa magica, un gioco di prestigio, una specie di incanto. Quell’emozione non mi ha più abbandonato e l’ho riprovata ogni volta che vedevo all’opera le sue belle mani, che con amore plasmavano, scalpellavano, dipingevano, incollavano, faticavano nella passione di far emergere un inesauribile mondo interiore.

Nel 1960 io mi trasferii a Como, ma appena potevo correvo a Forlì. Per me Forlì era soprattutto lo studio della Carmen. Con lei non erano necessari preavvisi, sapevo di trovarla, e comunque la porta era sempre aperta. Carmen aveva una specie di pudore nell’esplicitare i sentimenti, mi salutava con un sorriso appena accennato e i discorsi riprendevano come se li avessimo solo per un momento interrotti. Penso che fosse così anche per le tante e tante persone che l’hanno frequentata. E poi, Carmen aveva una dote che pochi possiedono, quella dell’ascolto. Non era un ascolto formale, lei partecipava davvero al racconto delle vicissitudini degli altri. Così, nel tempo, semplicemente, molti dei suoi amici sono divenuti anche i miei.

Negli anni 70 io ero una femminista militante, la mia vita allora era presa fra manifestazioni, discussioni sull’emancipazione e la liberazione della donna. Carmen invece era là, nel suo studio che liberava nove donne dalla creta, che cercava di infondere loro la forza per elevarsi, creava La scacchiera. Era questo il suo modo di prendere parte: con la sua arte.

Mi fa un immenso piacere sapere che La scacchiera adornerà il più bel parco di Forlì, finalmente uno spazio adeguato dove tutti potranno vederla e rivederla, emozionarsi ogni volta.

Certo, mi manca tanto quel piccolo laboratorio dove erano praticamente ammassate le sue opere, vi si respirava un’atmosfera calda e affettuosa, di accettazione di ciascuno, dove lo scambio di idee e di opinioni era possibile e piacevole. Quando tornavo a casa, mi sentivo più ricca.

Del tempo triste non voglio parlare.

Tonina Santi


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Milena Sassi:



Carmen e l’esperienza della “Scuola 0”

Eravamo negli anni Settanta quando un gruppo di adulti, che facevano riferimento a Don Dario della Comunità di Bussecchio, pensò di dare, insieme a lui, una risposta educativa ad alcuni adolescenti emarginati dalla vita o perché senza famiglia, o colpiti da gravi malattie, e soprattutto ancora “quasi” da alfabetizzare con un bagaglio negativo accumulato nella scuola di stato. La “Scuola 0” (poi diventata “Cooperativa Lamberto Valli” di Forlimpopoli) venne per caso scoperta da Sergio Zavoli tramite un opuscolo, da noi ciclostilato, trovato a Roma in casa Valli.

Lo spirito della scuola era quello descritto da Sergio Zavoli in un paragrafo del suo libro “Itaglia mia”, dove racconta: “I ragazzi di Bussecchio, in provincia di Forlì, hanno voluto partire da soli, da ‘un punto zero’, per costruirsi una scuola su misura dove studiare significa ‘riflettere e capire’; dove libertà è ‘imparare a stare con gli altri’; dove la storia è vista ‘come il corridoio di una grande casa’ in cui ognuno deve passare; dove l’autorità ‘non impone ma aiuta a crescere’…”. E ancora: “‘Chi sono gli altri’ è un tema che si son dati i bambini di Bussecchio, e continuo a citarli non tanto per lodare loro, quanto chi li ha invitati a vedere se stessi proprio negli altri…”.

Le citazioni sono state fatte non per vanità ma per dire che a Carmen una scuola così andava proprio a genio, tanto che quando dopo sette anni l’esperienza finì, lei spronava chi l’aveva vissuta a mantenere vivo questo spirito là dove ci si trovava a lavorare. Carmen, infatti, era una delle più convinte che “fare scuola” volesse dire sporcarsi le mani insieme, così come se le sporca un muratore o uno scultore nella realizzazione di un’idea magari pensata collettivamente, per un progetto comune.

Carmen, da bambina, aveva sofferto la scuola; la scuola l’aveva emarginata e lei si era lasciata emarginare senza fatica, creandosi un mondo diverso e fantastico che le era piaciuto tanto da portarlo sempre con sé. Mondo che le ha permesso di rimanere attaccata nodosamente alle sue radici, alla sua terra, ai suoi sogni. Le radici di Carmen non erano che i suoi affetti forti; non si potevano recidere mai, o quasi. Giovanissima ci aveva provato, per poi tornare e restare. Questo, lei lo sapeva, significava stare lontana da riconoscimenti professionali maggiori, essere schiacciata in una città di provincia.

Qualche invito, e validissimo, lo ha ricevuto: però doveva andare via da Forlì. Non l’ha mai fatto. Ha mantenuto vive le sue sfaccettature, numerose come quelle di un diamante. Intanto le sue radici si avviluppavano sempre più al suo sé (vedi “Medusa”).

L’ho conosciuta giovanissima. Già era un modello di donna indipendente. Più tardi ho capito quanto le sia sempre costato essere libera dagli stereotipi, dai luoghi comuni, dalle ovvietà. Questo le procurava dolore. Un dolore nascosto. Certo non parlo di quello ultimo, quello fisico, ma dell’altro: dell’angoscia che sfiora la follia, che si sublima nel tempo attraverso la comunicazione silenziosa di un’opera d’arte (vedi cartelloni a punta coi neri... fatti, diceva, quando x è scomparso, y è morto, z si è ucciso). Parlo di quella follia che si può guardare in faccia giorno dopo giorno e che magari ha i lineamenti di chi conosci bene, e magari sono simili ai tuoi. Era naturale che con il passare degli anni in Carmen il dolore si stratificasse. Ogni tanto ne ripescava un aspetto e ce lo raccontava nei suoi autoritratti, sempre intenso, importante, vibrante, mai risolto. Era il dolore che la faceva attenta e rispettosa della sofferenza di chi incontrava.

Qualcuno afferma che Carmen si sia lasciata “abitare” da tutti. Sì, tutti in lei trovavano ascolto e accoglienza. C’era però un limite invalicabile che lei tacitamente poneva: oltre non mi rompete, là sono sola, là vado sola.

All’inizio ho detto che mi piace pensarla coi ragazzi della “Scuola 0”. L’amicizia fra loro era nata in un giorno difficile, quando scoprimmo che “non girava” aria di scuola perché ognuno era oppresso da una abulia pesante, da una fatica di vivere ingiusta e prepotente. Andammo al suo studio. I ragazzi non videro né il suo anticonformismo, né la sua estrosità; semplicemente la trovarono una di loro. Si mostrarono improvvisamente aperti e le fecero un’intervista che qui riporto così come i ragazzi l’hanno trascritta:
Incontro con una pittrice e scultrice: Carmen Silvestroni
– Perché hai scelto questo lavoro?
– L’ho scelto a undici anni; un giorno non sono andata a scuola perché non andavo molto bene. Con la mia mamma abbiamo cominciato a pensare cosa potessi fare. Gli altri lavori non mi piacevano, ho scelto questo che mi sembrava un gioco.
– Quanti mesi hai impiegato a fare la “Via Crucis” che si trova nella chiesa di Regina Pacis?
– Circa quattro anni, ci voleva un mese per pannello, ma ogni anno sono stata parecchio tempo senza fare niente.
– Cosa rappresenta l’ultimo pannello?
– Dovrebbe essere il momento in cui tolgono le vesti a Gesù. Ma non c’era un tema che mi interessasse a fondo e ci voleva molto a realizzarlo. Mi sono lasciata trascinare dalla mia tecnica, ma in questo modo manca la comunicazione con gli altri.
– Molta gente dice che gli scultori sono persone strane; lei l’approva?
– Ogni persona libera è strana. Tutto quello che non rientra nella norma è strano.
– Ti senti integrata in questa società?
– Faccio di tutto per integrarmi. Chi non si integra sta molto male in questo mondo.
– Ti sei pentita di fare questo lavoro?
– No. Non è il lavoro che è brutto, è il sistema che è brutto. Anche fare la sarta è un bel lavoro.
– Ha fatto dei lavori che non le sono piaciuti, solo per i soldi?
– Sì! Quando l’ho fatto non ho chiesto molti soldi, valuto il mio lavoro come quello di un muratore. In genere facevo questo lavoro quando andavo a scuola per mantenermi: facevo del cartellonismo perché è un lavoro che odio ed era meglio fare un lavoro che odio per i soldi. Cosa vi sembro io?
– Una persona come gli altri.

Milena Sassi


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Alfonso e Nicola Vaccari:



Come se fosse adesso
(Memoriale attorno a Carmen Silvestroni)

Per parlare di Carmen occorre rallentare…, se non addirittura fermarsi; attendere un istante e far ricorso alla memoria.

Dal passato emergono di lei sensazioni ed immagini intermittenti e mutevoli, in uno spazio di tempo che lo spirito e il cuore non sanno calcolare.
Carmen è dunque un frammento della nostra memoria, come la “pelle del cielo sulla terra”, ma al contempo è anche “il presente”, in un’immutabile coesistenza per noi senza confini.

Diceva che bisognerebbe fermarsi, ogni tanto, per aspettare la nostra anima e che la neve… rallenta i movimenti e favorisce i contatti umani.
Attendiamola, perciò… affinché lei torni ad essere “adesso”!

Questa donna, con la forza e la determinazione, il coraggio di un guerriero, la rivediamo come se fosse “ora”, senza le cataratte nebbiose del passato, come “un attimo fa”, ossia in un sempre senza fine!

…Ed eccoci ora nel suo studio, nell’infinita attrattiva di quel luogo di pellegrinaggio, ove il mistero, il fiabesco, l’incanto catalizzano ciascuno di noi. Un mondo di inaspettate scoperte si svela al nostro udito, ai nostri occhi, alla ricerca dell’arte e di un’umanità trasformante.

Carmen così vicina, così lontana dalla realtà!

Sta lavorando con bellissime mani, dita affusolate ed eleganti; aggiunge pastellature di creta ad una testa: è il ritratto di una delle nipoti.

Il suo mento prominente, un po’ alzato, lo sguardo sereno e attento che guarda da sopra in giù, perfora le strette lenti degli occhiali cadenti sulla punta del naso. Un genio creativo estensibile come la forza della luce brilla sui ritratti di terracotta, allineati sugli scaffali: volti grotteschi che scherniscono chi guarda!

Odore di fuliggine tutto attorno, il forte calore della vecchia stufa, e la musica classica ci avvolge in morbide note tardo romantiche, dallo stereo perennemente acceso: Rai stereo 3, un disco in vinile… o un CD.

“Io non sono un’artista”, amava affermare con ironica modestia.

Adesso allora ci indigniamo dicendole che per noi lei è una grande artista, che le sue opere sono ingegnose. Lei sorride e ci conduce nell’altra stanza attigua; ha le mani e il giaccone con gli alamari sporchi di creta, mezza secca che si screpola e cade come polvere o cenere.

Su un tavolo sta qualcosa di inaspettato, come un baccello informe, vagamente antropomorfo, frastagliato ai bordi da frange che pungono, qualcosa di cristallizzato, un merletto crepitante. Il baccello concavo è sporco di patine giallastre e ricorda un sudario ove pare giaccia un essere alieno!

Quel calco in gesso svelato, contiene un positivo in resina che a fatica ci palesa l’identità morfologica plastica. Carmen solleva quella forma ormai fredda dalla pesante matrice, la rovescia cautamente, con attenta e misurata movenza.

La superficie è rosata, quasi opalescente, e rivela la struttura anatomica di un uomo nudo, dai piani sfaccettati, con molti sotto – squadri: un corpo con le gambe stese e sovrapposte l’una all’altra, le braccia aperte e sollevate a formare una “V”, il torace espanso e contratto, il ventre incavato e scarno, la testa reclinata da un lato, cubo – futurista, ricorda Boccioni, come il resto del modellato del corpo.

Seguiamo muti e stupefatti Carmen nell’altra stanza, ove prima lavorava alla testa in creta, e depone su un altro tavolo di assi polverose quella scultura; riconosciamo il Cristo crocifisso!

La sigaretta pende dalle labbra di Carmen e la cenere rischia di cadere sopra l’opera, tanta se ne è accumulata. Infastidita dal fumo, socchiude un occhio. L’indomita creatrice ci presenta il suo Crocifisso, il Creatore immolato da lei “ricreato” da un impasto di terra, e poi trasformato in incorruttibile resina.

L’arte di Carmen Silvestroni è un’arte spontanea, una felice evasione di plurimi linguaggi, mai disgiunti e sempre relazionati da un instancabile fare, ludico pragmatismo dei più sfrenati!

Uno zelo indomito, tutto proteso verso l’alchemico manifestarsi dell’opera.

Carmen se ne infischiava delle regole e del tempo!

Fra lei e il mondo non esistevano né convenzioni né compromessi; sapeva convertire ogni cosa in leggerezza e armonia. Carmen aveva imparato il sottile segreto della vita, giocando ogni giorno con essa per trasformare la fissità di un istante in un eterno divenire.

Un miracolo che donava gratuitamente a chi sapeva coglierlo e decifrarlo, mentre la si guardava modellare in quel suo sacrale instancabile lavoro. Ci permetteva così di entrare, silenziosi e discreti, in quel suo mondo di ineffabili verità.

Alfonso e Nicola Vaccari


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Marcello Vandi:



Puerto Santo, 20 febrero 2002

[…] mi sento obbligato di testimoniare il debito di affetto e riconoscenza per i valori trasmessomi con la sua amicizia, e la straordinaria ricchezza della sua anima di artista.

Solo nella lontananza e nel tempo si può valutare e apprezzare il valore di una opera d’arte, così pure l’opera irripetibile e singolare che sta rinchiusa nella personalità umana.

Carmen sempre è stata motivo di ammirazione per la sua forte personalità, per le sue convinzioni, di come viveva l’arte e la trasmetteva, nel dialogo, nelle opere, con la sua vita.

Ringrazio Dio per avermi regalato l’amicizia forte e sincera di Carmen.

Per suo consiglio ho frequentato l’accademia di arte plastica di Bologna, esperienza positiva come maturazione artistica, umana e sociale.

Ho vissuto gli anni 1967, ‘68, ‘69, la contestazione studentesca, l’occupazione dell’accademia, vivendo in carne i problemi dei miei amici di studio, compartendo con loro sacrifici e lotte per una scuola, più umana, giusta e aperta a tutti.

Imparai l’arte di ascoltare, di dialogare, saper tendere la mano, e a perdonare. Conservo ancora un ricordo di quei giorni di lotta: la perdita quasi totale dell’udito nell’orecchio sinistro causatami da un candelotto fumogeno sparato da un poliziotto, che di rimbalzo ha colpito il mio orecchio sinistro. Appresi, nell’accademia quello che Carmen tante volte aveva cercato di inculcarmi: la pittura come messaggio, vita e denunzia.
Carmen mi ha sempre accettato come sacerdote con grande rispetto, affioravano nelle discussioni che si svolgevano nello studio con i più originali personaggi e alla presenza della pecora, dubbi e discordanze sul modo di interpretare il messaggio evangelico da parte dei tradizionalisti, inflessibili nel giudicare e pronti nel condannare senza pietà.

Sempre ho creduto nella genuina religiosità di Carmen e nella fede in un Dio presente nella problematica della gente e nella vita dei poveri… Se Dio è amore? Lei si rivestiva di questo dono.

Un amore incondizionato a sua madre, ammirazione orgogliosa della di lei personalità, reso reale in dipinti e sculture.

Un’attenzione costante a suo padre, un senso profondo dell’amicizia come dono costante e attento per la crescita ed il progresso di chi in lei cercava aiuto e cammino.

Amava i poveri ed era una lottatrice per la giustizia sociale, disgusto e rabbia, espressava anche attraverso i suoi lavori, verso gli arrivisti e opportunisti.

Carattere indomabile e anticonformista lottatrice per la emancipazione della donna, rompeva con tutti i canoni del pensamento borghese, e teneva sempre come bandiera indiscussa la libertà e la dignità della donna.

Dopo circa venti anni di Venezuela come missionario, riuscii a convincere Carmen a visitarmi in Venezuela, compromettendola nel lavoro della via Crucis da collocare nella nuova chiesa costruita in Playa Grande.

Comprati i biglietti dell’aereo, formato il gruppo di artisti Carmen, Lucio e Nilde, desmontato il crocifisso regalatomi dal corazon generoso di Carmen, destinato a collocarsi nell’abside della chiesa; tutto era pronto, che felicità avere con me tanta artista! Che sogno, avere nella splendida chiesa, una viacrucis che fosse oggetto di ammirazione e di profonda pietà per un popolo tanto provato dalla ingiustizia dei potenti, e come Cristo deriso e privato della libertà e dignità.

Un controllo medico, un’analisi per una costante febbre, furono il tragico epilogo della attività e un ricovero urgente annullarono il viaggio oltre oceano.

La viacrucis non si realizzò con la inconfondibile forza artistica di Carmen, le pareti si quedarono vuote; però una viacrucis reale nella carne, nell’anima di Carmen si fu realizzando; una viacrucis di un valore incalcolabile, che ogni giorno portava Carmen ad essere, nell’accettazione del dolore, sempre più immagine di chi raccolse sopra di sé le sofferenze dell’umanità.

Con quanta dignità seppe affrontare l’infermità, al punto da dichiarare che amava il tumore che viveva in lei.

Le opere di un artista aumentano di valore alla di lui morte, la persona di Carmen, come artista, come insegnante, come lottatrice sociale, come amica, seppe esprimere i più alti valori in vita, non arricchendo se stessa, ma gli altri.

Oggi e sempre è viva in noi e non possiamo se non dare grazie a Dio per averla conosciuta.

Sempre amico Marcello Vandi
Bologna 11/02/02


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Guglielmo Vecchietti:



Sul filo della memoria

Riandare sul filo della memoria trovare il bandolo per dipanare una semplice storia su Carmen non è semplice cosa, troppo complessa la sua personalità e troppo numerosi gli accadimenti. Ho chiara però la prima volta che l’incontrai nei corridoi dell’Accademia, nel ‘67, io fresca matricola di scultura, Lei fresca di nomina come insegnante di Plastica ornamentale. Era con altri di cui ricordo solo Carlo Santachiara, Lei era raggiante, una donna atletica e alla mano, sentii nei suoi riguardi simpatia e ammirazione.

Fummo entrambi allievi di Mastroianni e spesso in futuro fu argomento di confronto sul suo insegnamento (così forte e personale difficile da superare e liberarsene) qualche anno dopo quando ci ritrovammo ad insegnare (per anni) negli scantinati dell’Accademia.

I nostri laboratori erano brulicanti di studenti e Carmen era un punto fermo di riferimento. Sentivo di avere molte cose in comune con Lei, la grande passione per la scultura, lo sport, la pratica del paracadutismo che Lei aveva affrontato come sfida, l’amore del viaggio - avventura, numerosi fratelli e sorelle, la passione per la vita, la disponibilità agli altri, ma per Lei soprattutto la curiosità, il voler sempre sperimentare.
La sua certo non era un’originalità ostentata, la si potrebbe considerare, nel senso più positivo, “una femminista ante littera”.

Nei numerosi anni che ora mi paiono pochi, poiché ha lasciato in me un grande vuoto, ho scoperto in Lei, dai lineamenti così forti, una donna estremamente femminile, fragile, sensibilissima, riservata, generosa.

Seppur mi consideri uomo forte, ho imparato molto da Carmen, dalla sua vita travagliata, mi ha insegnato ad affrontarla con quella dignità e determinazione che sono appannaggio di “grandi persone”.

Non ho mai chiesto a nessuno di aiutarmi a fare un lavoro, Carmen è l’unica alla quale mi sono rivolto per la sua esperienza a riprodurre le “Quattro stagioni” poste sul palazzo del Comune di Pieve di Cento. Veniva allo studio in S. Colombano, dormiva da noi, cenavamo, parlavamo a lungo, ma quando si lavorava, si lavorava e, solo allora mi resi veramente conto della sua grande forza e capacità, superiore a chiunque altro.
L’ho seguita a Sadurano, nella ristrutturazione della casetta e della costruzione dello studio, nelle varie mostre. La convinsi anche a venire con me a Parigi, in un epico viaggio notturno, per trasportare ed esporre le nostre opere al “Grand Palais”.

Non trovavo il modo di scrivere qualunque cosa per paura di farle seppur un minimo torto, mi sono risolto all’ultimo minuto per scrivere poche righe su di Lei, che aggiunte a quelle dei numerosissimi amici ed estimatori spero serviranno a comporre un quadro finito.

Ho cercato delle foto dei tantissimi momenti sereni passati con Carmen, eccola nell’88 in Piazza Maggiore a Bologna in una delle numerose manifestazione per l’Accademia.

Grazie Carmen! Con affetto- Guglielmo, Géraldine, Anouck


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Paola Zaccaria:



per un’amica


tu dici
che la notte
vuoi
vederla
venire
e con lei
disquisire
in lunghe
ore
d’arte
d’amore
di
filosofia
fin che hai
voce
e
parole
io
voglio
andar
via
senza
rumore
e
senza
salutare
come
se
di lì
a poco
dovessi
ritornare.
--
per Carmen

e s’avvita
la forma
alta
nel
volo
va
solitaria
come
strido
d’aquila
che
remigando
naviga
gli
spazi
dove
s’inoltra
negli attoniti
gorghi
del silenzio
tu
non
ci sei
andasti
cara
amica
posso
così
chiamarti
anche se
avemmo
poche
frequentazioni
hai
varcato
il confine
qual è
la chiave
quale
parola
d’ordine
com’è

fuori
mi
pesa
il cuore
ma
dove siete
tutti
voi
che
mancate
e le
incompiute
cose
mancano
a voi
le impronte
dei
vostri
passi
ad uno
ad
uno
ci lasciate
soli.

Paola Zaccaria


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